
C’ è bisogno al fronte
Questa settimana ho lasciato New York per la prima volta dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre. Sono stato a Lincoln, Nebraska, nell’“Heartland” degli Stati Uniti. Le misure di sicurezza negli aeroporti sono indubbiamente maggiori, ma niente affatto paralizzanti, e sicuramente nessuno se ne è mostrato turbato. Il capitano del mio volo ha dato il benevenuto ai passeggeri ben oltre le formule consuete, ringraziandoli per «il coraggio dimostrato» nel vincere le paure. Il problema di questa “guerra” è che il nemico può trovarsi, non visto, all’interno della stessa comunità a cui apparteniamo noi. Del resto, la grande maggioranza della gente non può fare a meno di sospettare del suo prossimo per via del suo aspetto fisico. Sul mio volo verso Minneapolis, per esempio, due studenti di college pakistani o indiani che, impegnati a giocare con un videogame, parlavano concitatamente una lingua che nessuno capiva si sono improvvisamente resi conto che gli uomini seduti nella fila esattamente dietro la loro e in quella di fianco li tenevano sott’occhio, pronti a saltare loro addosso alla minima mossa sospetta. Lincoln è una piccola città praticamente situata nel mezzo dello Stato e circondata per miglia e miglia da grandi fattorie. Benché abbondantemente provinciale, certamente non è isolata dal resto del mondo. Eppure mi è sembrato che i suoi abitanti mi guardassero come uno che aveva abbandonato gli incarichi a cui era stato assegnato sul fronte di guerra, una guerra che pure essi sentivano propria. Sulla strada del ritorno, la signora del coffe-shop dell’aeroporto di Lincoln mi ha detto che, in quanto sacerdote, di me c’era «bisogno al fronte». Benché apparentemente sia inconcepibile che per un attacco come quello dell’11 settembre dei terroristi possano scegliere una città, e ancorché molti mi abbiano detto di apprezzare sinceramente il fatto di abitare lontano dai grandi agglomerati urbani, gli abitanti di Lincoln si sentono già sotto l’attacco di un nemico invisibile. E sembrano cercare tutti di condurre un’esistenza normale pur con un fardello che ancora non riescono a comprendere del tutto, cioè hanno l’impressione che la loro vita sia cambiata improvvisamente e per sempre. L’“atmosfera” sembrava un po’ diversa da quella di New York. I consigli contradditori dati dai funzionari di governo non aiutano granché e nessuno sembra davvero sapere cosa stia succedendo per la questione Anthrax. (Non credo che quest’anno l’industria dei bigliettini di Natale andrà molto bene!). Alcuni si domandano se gli americani avranno la pazienza necessaria a sostenere una guerra di lunga durata. Se l’atmosfera di pericolo imminente che la gente avverte attorno a sé continuerà o addirittura aumenterà, gli americani saranno disposti a sopportare qualsiasi sacrificio. Il pericolo vero è però questo: se gli “inconvenienti” legati alla sicurezza interna, specialmente ai viaggi interni, inizieranno a essere percepiti come parte dei continui attacchi di un “nemico invisibile”, e non solo come conseguenza della nostra risposta militare, gli americani chiederanno non la cessazione degli sforzi bellici, ma un loro ampliamento.
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