
Calvario. Anche i preti vanno all’inferno

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) –Irlanda, domenica mattina. Un sacerdote in un confessionale sta leggendo annoiato Moby Dick. Entra qualcuno di cui sentiamo solo la voce: «La prima volta che ho ingoiato lo sperma di un uomo avevo sette anni».
È questo l’inizio di Calvario, che non è la storia di una confessione, ma di una vendetta. Il regolamento di conti di un uomo che da bambino fu abusato da un prete e che oggi non ne vuol sapere di cicatrizzare la ferita con qualche seduta dallo psicanalista o di «elaborare» il dramma in qualche gruppo di supporto. «Sono stato violentato oralmente e analmente, come hanno detto i rapporti giudiziari», sogghigna. E poiché quel sacerdote pedofilo è morto, ora «io la ucciderò domenica prossima, padre, perché lei è innocente. È facile uccidere un prete cattivo. Ma uccidere un prete buono è tutta un’altra questione. Ha niente da dire, padre?».
«Non ora, no», risponde lento. «Ma sono sicuro che avrò pensato qualcosa per domenica prossima».
«C’è parecchia merda in giro»
Calvario è un film bellissimo, duro, spietato. È un thriller, ha spiegato il regista John Michael McDonagh, che non è costruito sulla canonica domanda: «Chi è stato?», ma sull’inusuale interrogativo: «Chi sarà?». Ma forse v’è un terzo quesito che, man mano che siamo condotti a conoscere il protagonista, siamo costretti a porci. Padre James, infatti, sa chi è il suo futuro carnefice, è un suo parrocchiano, ne ha riconosciuto la voce. Così che la questione del film non è «chi sarà l’assassino», ma «cosa gli dirà padre James quando se lo ritroverà davanti?». E di seguito, col procedere delle scene, al gioco tipico di ogni giallo – cioè la sfida tra l’autore e lo spettatore nella decriptazione degli indizi –, si sostituirà un più drammatico interrogativo: «Gli saranno venute in mente delle parole? E quali? Cosa può dire o fare la Chiesa innocente per redimere le colpe dei suoi pastori?».
Padre James Lavelle è un sacerdote sui generis. È pastore di un gregge di lupi tra il verde e l’azzurro d’Irlanda. Ha un debole per la bottiglia come i “preti spugna” di Graham Greene, la mole e il muso ruvido come certi brutali rugbisti che nascono solo da quelle parti. Ha una faccia che sembra dire in ogni momento: «Sono un prete. Non dipende da me». Padre James ha una vecchia storia da raccontare ed è quella di un uomo che «padre» lo è veramente, avendo scelto d’indossare la tonaca dopo la morte della moglie. Ha una figlia, Fiona, che fatica a perdonarlo per averla abbandonata nel mondo infame, lei che avrebbe così bisogno di lui, lei che ha frequentato uomini insulsi, lei che conosce la cocaina e come si possa sbagliare persino a tagliarsi le vene dei polsi. Poi c’è la dozzina (e il numero non è casuale) di abitanti del paesino irlandese, tutti orrendamente infuriati col prete, sebbene tutti gravitanti intorno alla sua orbita, come se lui fosse il sole e loro pianeti dispersi in uno spazio senza senso. Lo insultano, lo deridono, lo provocano, provano per lui commiserazione e rabbia. Ma continuano a girargli intorno, come satelliti che non possono fare a meno di dipendere dal loro centro d’attrazione.
Scandito dal succedersi dei giorni della settimana – il calvario di padre James ha il ritmo della Passione di Cristo – il film introduce i vari personaggi tra cui si cela il futuro assassino. C’è il ricco che ha fatto milioni con qualche oscura speculazione e che oggi ha tutto: una bella casa, un cavallo, dei bei quadri e dei bei soldi. Ha tutto tranne che un motivo per vivere. Moglie e figli («e pure la cameriera») l’hanno abbandonato nel suo museo, dove si consuma annoiato pisciando sui quadri. C’è il medico cinico, ateo ed edonista che si diverte a sfidare il prete nel trovare un motivo a casi disperati e tragici. E che quando è solo, davanti a questo male insensato, altro non sa fare che spegnere le sue sigarette sulle viscere deposte nelle bacinelle ospedaliere. C’è il macellaio, inetto e patetico, consapevole dei tradimenti della moglie con il prestante meccanico nero del borgo e che accetta il tutto con arrendevole sarcasmo: «Mia moglie o è bipolare o è intollerante al lattosio, uno dei due». C’è l’anziano romanziere americano, rifugiatosi qui per chissà quali motivi, e che al sacerdote non ha altro da chiedere se non che gli porti il pranzo, e magari una pistola per farla finita. C’è l’ispettore di polizia omosessuale e il suo compagno gigolò, il barman che detesta tutti i padri James del mondo e lo stralunato Milo, un ragazzotto con più di qualche fisima sessuale che sogna di arruolarsi per uccidere qualcuno e trovare così un modo per incanalare i suoi furori giovanili. C’è l’imberbe cannibale serial killer che il sacerdote va a trovare in carcere e che gli riversa addosso le sue perversioni con stile freddo e distaccato. C’è il piccolo chierichetto che beve il vin santo di nascosto, il vescovo inetto e calcolatore e il coadiutore della parrocchia, padre Timothy, che cerca Dio fra i libri di spiritualità anziché tra gli uomini.
In questo labirinto di vite sofferenti s’agita padre James, fuggendo e al tempo stesso cercando di caricarsi delle piaghe di tutti e di ciascuno, tentando di indicare loro una strada o perlomeno un pertugio verso la redenzione. Per questo la sua giornata è tutta una via crucis tra dannati che non si vogliono salvare, anime vagabonde che bestemmiano il Cielo, ferite senza sutura e cicatrice.
«C’è parecchia merda in giro», dice padre James che troverà conforto solo nel dialogo con l’unica figura che non appartiene al microcosmo indiavolato del suo villaggio: una donna, che come una Beatrice gli suggerirà la sottile eppur netta certezza su cui si basa la fede cattolica: la salvezza non è probabile, è possibile. È una questione di libertà, come ricorda la frase di sant’Agostino posta ad esergo della pellicola: «Non disperare: uno dei due ladroni fu salvato. Non illuderti: uno dei due ladroni fu dannato».
Colpevole “e perciò” inutile
Calvario non è un film “cattolico”, qualunque stupido significato si voglia incasellare in questa definizione. Non lo è innanzitutto perché il suo sceneggiatore e regista, John Michael McDonagh, non è cattolico: lo è stato «da piccolo», ma oggi si definisce «un anarchico». L’attore Brendan Gleeson, protagonista sia della sua prima opera, The Guard, sia di Calvario, ha raccontato che l’idea del film è nata una sera in un pub, davanti all’immancabile birra: «Cosa si prova ad essere criticato e diffamato per i peccati degli altri, solo perché fai parte di una comunità, pur avendo intenzioni totalmente diverse? Ad averci ispirato è stata l’idea di quanto difficile dev’essere mantenersi buono e fedele alla verità anche quando sei minacciato e denigrato. John mi disse: “Se scrivo il personaggio di un prete buono, lo reciteresti?”. Ho risposto: “Sì, certamente”, senza alcuna esitazione».
In questi anni, a seguito dello scandalo della pedofilia che ha colpito la Chiesa irlandese, sono uscite numerose pellicole di denuncia sul perverso potere clericale. Da Jimmy’s Hall di Ken Loach a Magdalene di Peter Mullan, fino a Philomena di Stephen Frears. In tutti queste opere il bersaglio polemico è la gerarchia cattolica e le sue colpe, le sue omissioni, la sua incapacità, di fronte al male commesso, di poter pronunciare una parola che sia di conforto e di verità. Una Chiesa colpevole e perciò inutile. Anche se oggi «quei preti» non sono «questi preti», essa deve pur pagare il fio. È, in fondo, il tema di Calvario: un innocente deve espiare i peccati dei “suoi” (i sacerdoti). Ma, allargando lo sguardo, potremmo dire che la Chiesa deve pagare per le malefatte di tutti, persino dei suoi carnefici. La Chiesa è colpevole del più grande dei crimini: non essere stata all’altezza del compito che le era stato assegnato. E che devono fare ora i figli degli uomini? Se non si può credere nei preti, non si può credere in Dio. E se non si può credere in Dio, non si può credere nei preti. Rimane una sola dannata questione: chi ci rimetterà i peccati?
Il suggerimento dell’anarchico
Calvario non è un film cattolico – nel senso di “clericale” – perché non ha intenti apologetici. Su tre sacerdoti presenti nella vicenda, due sono delle nullità e il terzo è uno che si inginocchia davanti al crocifisso con la bocca impastata di whiskey. Ed è un bel suggerimento quel che arriva da un regista anarchico alla gerarchia cattolica, di ieri e di oggi: il male non va negato, nascosto, tollerato. Ma il nostro male non può essere nemmeno motivo di ricatto. Il male va, semplicemente, affrontato. È quello che fa padre James che, proprio per il fatto di non essere un prete buono e amichevole, sbaraglia il campo dall’ossessione tutta moderna che per proporre la salvezza si debba essere puliti e senza macchia. Ma se non fossimo lerci, che bisogno avremmo di una redenzione? Per dire la verità non occorrono etichette confessionali o patenti di presentabilità.
In altre parole: a che serve la Chiesa? Questa istituzione imperfetta, così umana, così inadeguata rispetto alla promessa di cui s’ostenta custode, che vuole da noi? Due scene del film aiutano a comprendere meglio come la domanda vada, per così dire, sudata e sofferta. Ad un certo punto, la chiesa di legno di padre James andrà a fuoco. Di essa rimarrà solo una Bibbia annerita, unico segno ripescato tra carboni e legni spezzati. Davanti ai relitti, si chiederà il capo della polizia: «Un giorno, cosa diranno posteri? In cosa hanno creduto i nostri padri?». Intorno è solo desolazione e non si sa quanto sia un auspicio o solo l’ultimo sberleffo il consiglio di costruirla coi mattoni, la prossima volta. Se mai ci sarà, la prossima volta.
Così, in un’altra scena che è il ritratto di cosa sia oggi l’Irlanda (e il mondo), padre James si ritrova a conversare per caso con una bambina che si sta recando in spiaggia. Una chiacchierata innocente tra un uomo grande e grosso e una bambina solare, interrotta dal rumore della frenata di un’auto da cui scende frettoloso un padre che allontana la piccola dal prete. La carica in macchina e la porta via sgommando. Ecco cosa dice la tua talare padre James: sei un intruso, un untore, un molestatore.
Un angelo da sfidare
Può un innocente sopportare tanto male? E fino a quando? E perché? E a che prezzo? McDonagh ha spiegato che Calvario fa parte di una trilogia iniziata con The Guard. Là era un poliziotto puttaniere e inaffidabile che affrontava una banda di trafficanti di droga fino allo scontro finale. Qui è un prete manesco che deve decidere se presentarsi una domenica sulla spiaggia per guardare negli occhi il suo assassino. Il terzo film prenderà ispirazione da un racconto di Flannery O’Connor, Gli storpi entreranno per primi e narrerà di un paraplegico scorbutico e problematico. E poiché ogni storia universale è sempre una storia familiare, McDonagh ha ambientato il primo film a Galway, terra natia del padre, il secondo a Sligo, contea di provenienza della madre, e il terzo a Londra, la città in cui è cresciuto. In tutti e tre i casi, ha detto il regista, si tratta di uomini costretti a entrare in battaglia con qualcosa «di più grande di loro».
Che è un po’ quello che accade ai personaggi della O’Connor, perennemente sfidati e sfidanti i demoni terrestri e gli angeli celesti. Ed è quello che accade a padre James che col procedere del suo calvario vede consumarsi giorno dopo giorno non solo la sua anima, ma anche il suo corpo, via via sempre più ricoperto di cicatrici, ferite, stigmate. Ogni giorno ha il suo demone da combattere, ma anche il suo angelo da sfidare, come insegna Giacobbe.
«Si parla troppo di peccati e poco di una virtù sottovalutata, il perdono» dice il protagonista, in quello che può essere considerato il messaggio esplicito del film. L’altro, quello suggerito, è che c’è sempre all’inferno qualche santo consapevole della propria drammatica insufficienza. Eppure, ha spiegato il regista, «come nei western di Sergio Leone, c’è sempre un prete, là, da qualche parte».
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“la Chiesa innocente per redimere le colpe dei suoi pastori?”
Prima di tutto smetterla di considerare le persone come delle pecore,
inoltre tutti gli episodi di pedofilia sono causati
“A causa di un codice del silenzio imposto su tutti i membri del clero sotto la pena della scomunica i casi di violenza sono stati anche difficilmente riferiti alle autorità giudiziarie nei Paesi in cui sono stati commessi”
e quindi la chiesa NON è innocente.
In quale parte CIC sarebbe scritto che non si può denunciare gli atti di pedofilia nel clero pena la scomunica, Shiva? Mi posti l’articolo, per favore? Calunniatore.
Adesso vediamo se lo posta.
Ogni due-tre ore torno a vedere.
L’ONU e la chiesa sanno bene a cosa si riferiscono.
Alle direttive interne, al “Crimen Sollecitationis” controfirmato da Ratzinger
“Spondeo, voveo ac iuro, inviolabile secretum me servaturum in omnibus et singulis”
“Prometto, mi obbligo e giuro che manterrò inviolabilmente il segreto su ogni e qualsiasi notizia, di cui io sia messo al corrente nell’esercizio del mio incarico”
alle prese di posizione, agli atti e alle indicazioni del SantoUffizio e a TUTTA la modalità di gestione di questi crimini nel corso degli anni.
Non dire idiozie, per cortesia, la “Crimen Sollecitationis” era contro il crimine di adescamento e non di pedofilia. Inoltre, la segretezza non è assoluta, bensì riguarda soltanto gli atti del processo canonico (giustamente) prima della sentenza definitiva da parte del tribunale ecclesiastico; niente vieta di denunciare chi si è macchiato di crimini sessuali di essere denunciato all’autorità civile. Insisto, dove sarebbe previsto nel Codex Ius Canonici la scomunica per la denuncia alle autorità civile dei casi di violenza sessuale? Per quanto riguarda l’ONU, la derido e la respingo. Insisto: calunniatore!