
Cancel Lukaku

È un peculiare tipo di cancel culture quella applicata da alcuni tifosi interisti al murale che raffigurava un enorme Romelu Lukaku esultante, schiena al mondo e braccia al cielo. A dire il vero più che cancellare del tutto il murale (ma lo faranno, vedrete che lo faranno) per ora i tifosi si sono limitati a imbrattarlo, irritati per la cessione del loro idolo al Chelsea o, meglio ancora, arrabbiati con lui per avere accettato l’offerta di lavoro oltremanica.
E in effetti di cancellazione si tratta, visto che strisce nere hanno coperto, fra l’altro, il numero 9 sulla maglia nerazzurra e la scritta «You’re welcome» con cui gli avevano dato il benvenuto in tempi che oggi sembrano lontanissimi.
Il numero di Lukaku
Azzardare una psicoanalisi dell’ultrà è quanto meno ardimentoso ma può essere utile a mostrare macroscopicamente alcuni aspetti dell’attuale ossessione di cancellare tutto. Primo, cancellare il numero ma non la maglia significa voler dire a una persona che la sua identità è accettata solo quando aderisce a una fazione (che sia una squadra di calcio o un’ideologia), ma che non merita di lasciare traccia una volta che se ne discosta.
Secondo, rimangiarsi il benvenuto è l’espressione passivo-aggressiva di un rimorso: sottintende che, se solo i tifosi avessero saputo che a un certo punto Lukaku se ne sarebbe andato, non si sarebbero spinti all’eccesso di accoglierlo quand’era arrivato.
La rivelazione scandalosa
La rivelazione scandalosa è il perno di tutta la cancel culture. Nel caso di Lukaku è consistita nell’improvviso accorgersi, da parte dei tifosi, che un calciatore può trasferirsi in un’altra squadra.
Ma, come sappiamo, vale in ogni contesto: per cancellare il ritratto di un romanziere può bastare la scoperta che ha usato quella parola che oggi non si può più dire, per cancellare il ritratto di uno scienziato può bastare la denuncia postuma del pronipote di un assistente vilipeso, per cancellare il ritratto di un’attrice può bastare la notizia che ha accettato il premio assegnato da una giuria non perfettamente inclusiva.
Il senso storico degli ultrà
Colpisce soprattutto, riguardo all’ex murale di Lukaku, che sia un esempio da manuale di come la cancel culture si rapporta al passato: con un misto di ingenuità e negazione dell’evidenza. Pensateci. Se Lukaku giocava nell’Inter, quale ne era la causa? Il fatto che due anni fa se ne fosse andato dal Manchester United. Questo precedente poteva lasciar presagire che prima o poi se ne sarebbe andato dall’Inter verso altri lidi. Ai tifosi più attenti non sarà inoltre sfuggito che tale destino è toccato a numerosi calciatori della loro squadra.
Delle più grandi bandiere, hanno giocato sempre nell’Inter soltanto Mazzola, Facchetti e Bergomi. Beppe Baresi è passato al Modena, Mariolino Corso al Genoa, Zenga alla Sampdoria, Burgnich al Napoli, Altobelli (ehm) alla Juventus. Quindi, se la reazione al calciomercato dev’essere questa, forse imbastire un murale per Dzeko non conviene. Ma il senso storico degli ultrà dev’essere lo stesso delle matricole delle università americane, alle quali vengono i vapori perché a lezione scoprono che nei poemi omerici ci sono sesso e violenza o che i feudatari non erano genderfluid.
La fine dei cancellatori
Ultimo corollario, la cancel culture non si applica a sé stessi. Sfido a trovare un qualsiasi tifoso, arrabbiato quantunque, che per amore della maglia rifiuterebbe di cambiare lavoro, di venire pagato di più e di avere un impiego che gli dà più prospettive. Direbbe: “Che c’entra?”, e farebbe pari pari la mossa di Lukaku.
Allo stesso modo, il cancellatore più moderno e impeccabile che possiate immaginare, ideale perfetta incarnazione dello spirito del tempo e del politicamente corretto, non pensa mai che in un lontano futuro qualcuno potrà trovarlo mancante, discriminatorio, offensivo secondo canoni tanto anacronistici quanto quelli che applica lui. Non pensa mai che prima o poi tutti i cancellatori saranno cancellati.
Foto Ansa
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