
Il cannabis-show dei radicali dice più cose sulla giustizia e sulle toghe che sulla droga

Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
L’insistente battaglia dei radicali per la legalizzazione della marijuana può trovare consenso o pieno disaccordo (se v’interessa saperlo, io non ho alcuna certezza in materia: sono favorevole all’idea, ma nutro dubbi sui possibili risultati). Però una cosa è sicura: le autodenunce di Rita Bernardini sono un vero spettacolo. Lo sono perché ogni volta smascherano l’indecorosa ipocrisia della giustizia penale italiana.
Dalla metà degli anni Novanta, Rita Bernardini, che è stata segretaria e deputato di Radicali italiani, conduce una campagna per la legalizzazione della cannabis che si basa su continue provocazioni. Le sue ultime iniziative più eclatanti sono state due. Nel novembre 2014, al congresso del partito a Chianciano Terme, si è presentata con 16 grammi e mezzo di cannabis divisi in 15 dosi singole (leggasi “canne”), che aveva confezionato usando foglie delle piante coltivate sul suo terrazzo, e sotto gli occhi degli agenti di polizia convocati per l’occasione ha ceduto la droga ad alcuni malati che ne necessitavano per finalità terapeutiche. Da qualche mese, poi, l’ex parlamentare radicale si è messa a coltivare sul suo terrazzo 56 piantine di marijuana, ne ha pubblicato le foto sul suo profilo Facebook e contemporaneamente si è denunciata alla procura di Roma, che lo scorso maggio ha provveduto a sequestrarle la piantagione.
Questione di dimensioni?
Storie parallele, insomma. Invece l’attività giudiziaria che ne è scaturita è totalmente diversa. A Siena, per la sua disobbedienza civile, Bernardini è già stata rinviata a giudizio (senza arresto preventivo) e la prossima udienza è in calendario per il 21 ottobre. A Roma, la procura ha chiesto e ottenuto il suo proscioglimento perché le 56 piantine sequestrate sono state dichiarate «troppo piccole e tenute in condizioni climatiche sfavorevoli per produrre quantità di principio attivo tale da superare la soglia dell’offensività».
Il magistrato romano ha stabilito che «ai fini della rilevanza penale occorre ravvisare in concreto l’offensività della condotta. E nel caso di specie occorre considerare che gli arbusti rinvenuti nell’abitazione dell’indagata, seppure in numero di 56, sono di piccole dimensioni (40 di circa 30 centimetri di altezza e 16 di circa 12 centimetri), piantati in modeste quantità di terriccio contenuto in buste di stoffa e custoditi in un terrazzo con esposizione a condizioni climatiche sfavorevoli». In parole semplici: se vuoi coltivare cannabis fallo, basta che le piantine non crescano troppo e non diano fastidio ai vicini.
Peccato che a un qualunque cittadino, e quasi quotidianamente lo dimostrano le cronache da Bolzano a Trapani, basti la coltivazione domestica di tre o quattro piante di marijuana per finire in galera. Così Bernardini, provocatoriamente, insiste: «Voglio essere arrestata anch’io». Ma nessuno, in questura o in tribunale, pare prenderla sul serio. Il problema è proprio questo. Le autodenunce della coltivatrice-provocatrice Bernardini pongono una questione ineludibile, ma l’autorità giudiziaria, forse per non prestarsi al suo gioco, gioca a rimpiattino. Così facendo, però, dimostra che la giustizia, in Italia, non è una cosa tanto seria.
Perché, di fronte alla roulette, che fine fa la certezza del diritto? E può dirsi pienamente rispettata l’obbligatorietà dell’azione penale, l’inamovibile precetto costituzionale cui la categoria dei magistrati si aggrappa a ogni ipotesi di riforma, nemmeno fosse la coperta di Linus? Risposta ovvia: fa la fine che merita, quella di un’ipocrita finzione letteraria.
Foto Ansa
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