
Cantico per un inizio
L’inizio è nel tepore terso che mi accompagna lungo il nastro grigio dell’asfalto. Sulla linea dell’orizzonte la presenza famigliare dei monti quasi fa dimenticare le cicatrici ancora aperte di settembre, mese di vendemmia per i tralci della vite e per i figli dell’uomo, povere fragili foglie esposte al vento dell’artiglieria.
Da qualche tempo siamo in guerra – mi dico – festosamente in guerra, almeno a sentire quelli che restano, salutano e tengono discorsi gonfi d’orgoglio. Parcheggio, mi faccio strada tra la folla chiassosa di ragazzi che attendono al cancello e ti vedo, cara collega, che mi saluti e hai ancora sulla pelle le recenti vestigia dei giorni trascorsi lungo la spiaggia di qualche mare.
Si comincia e l’inizio è un sussulto di memoria: L’unica gioia al mondo è cominciare. è bello vivere perché vivere è cominciare, sempre ad ogni istante. Penso all’aurora, alla primavera, al perdono dopo la caduta, mentre scruto negli sguardi cercando un bagliore d’onda in risposta alle parole di Pavese che offro ai passanti come fossero un regalo.
Sul dispaccio che mi consegnano in fureria non si dice nulla della guerra. Mercoledì collegio dei docenti – c’è scritto – Ordine del giorno: perché i ragazzi studiano quello che studiano? Dicono sia questo il problema più diffuso tra i nostri studenti, ma io, incrociando il volto grave, e caro, di una professoressa di greco, penso al vecchio Crono che ha ricominciato a divorare i suoi figli. L’unica gioia al mondo è cominciare, appunto. Non è perciò inutile questo riprendere un’impresa nata già morta, sconfitta dalla sciatteria, dall’indifferenza, dall’incuria, dalla rassegnazione di un mondo che pare organizzato per far fuori i propri figli?
«Cara professoressa, sai dirmi quanti sono gli inverni che i nostri figli hanno ricevuto in eredità?».
«Sicuramente, mio caro professore, l’inverno che ci spetta nascendo figli della stirpe dell’uomo: il gelo della morte che soffia, come un vento avido, e ci toglie quello che di più caro abbiamo; l’urto della separazione, del distacco; il saluto cui tutti dobbiamo disporci, come guerrieri che apprendono la dolente regola della guerra».
«Ma l’inverno, amica mia, ha insegnato agli uomini anche la sapienza del seme, che muore per portare frutto. Lo sguardo che le generazioni si sono tramandate è quello del vecchio agricoltore che scrutando la brulla pianura, quando la terra è dura e l’albero è spoglio, sanno il lavoro che, invisibile e potente, si sta svolgendo sotto la coltre bianca di brina. Sanno il lavoro del seme, sacro come una liturgia, e attendono, lungo il corso esercitato della pazienza, la gemma, l’occhio ridente che spunta sulla vecchia scorza del legno e convoca il cuore a godere l’esultante e discreto tepore della primavera. Da questa bellezza è nato il lavoro, l’opera tenace che si prende cura del mondo perché ha visto che la più esile delle piantine, il più piccolo dei semi partecipa dell’Opera potente dell’Essere che non finisce mai di creare. La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere».
«E chi l’ha detta, questa cosa?».
«Un polacco di nome Cyprian e cognome Norwid. Egli sa che l’Essere stesso si fa seme che muore per trascinarci con sé, nella sua Resurrezione; noi e, con noi, tutto quello che amiamo. Signore, accordandoci i beni che passano, tu ci sospingi al possesso della felicità che permane e mentre concedi le consolazioni della vita presente, già prometti le gioie future affinché ci sia dato fin d’ora di pregustare un’esistenza perenne. Si può dire a scuola? Si può insegnare ai nostri ragazzi questa forza di razionalità e affetto contenuta nella saggezza ambrosiana tramandata dai nostri barbarici padri?».
«Dimentichi, caro amico e collega, che i nostri figli hanno dovuto e devono affrontare un secondo, ancor più tetro inverno: la bugia del nulla. Il gelido vento del dubbio, il riso beffardo, la lama che miete i cuori, il ghigno di inimicizia verso il mondo. Il nuovo Crono, divoratore di figli, pretende che le cose, la vita vibrino il breve attimo del nostro possesso: spremere il limone, assaporarne l’acre sapore e gettare la scorza nella spazzatura. Forse per evitare l’umile evidenza che il mondo c’è perché è dato; e noi non ne siamo i padroni».
«Taluni dicono che l’occhio c’inganna/ e che non c’è nulla, solo apparenza./ Ma proprio questi non hanno speranza./ Pensano che appena l’uomo volta le spalle/ il mondo intero dietro a lui più non sia,/ come da mani di ladro portato via. Czeslaw Milosz, Speranza, 1943».
«Ancora un polacco!?!».
«Nato in Lituania, però».
«E allora?».
«Allora i nostri ragazzi non soffrono di scarsa tenuta morale o di disamore per la fatica: il loro è lo sguardo sgomento dell’uomo che rivolta le tasche e le trova piene di polvere, piene di niente. A furia di presentare il mondo come un atomo insensato, la vita come una casualità arbitraria, come si potrà pretendere che essi si interessino allo studio? Studio di che? Di niente? Come potranno amare una donna, un bambino, la vita? Il loro problema non è appassionarsi a un frammento di inutilità qualsiasi, ma amare, amare se stessi, risvegliare quell’ impeto di sete inestinguibile che è la forma stessa dell’animo umano e lo protende pieno di desidero al mondo, perché non un sogno, ma corpo vivo è la terra. (grazie Milosz!)».
«E Crono?».
«Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».
«Non so chi abbia pronunciato queste parole, ma penso che bisognerebbe scriverle sui muri di tutte le scuole! E di tutte le case, gli uffici, i palazzi.».
«L’ha detto Cristo, se gli è concessa ancora cittadinanza in questo marasma clericale di pensiero laico. Tuttavia, prima che sui muri, bisogna avercele scritte nel cuore queste parole, e negli occhi quando guardano, nelle mani quando lavorano, nei piedi quando camminano… Come figli che sanno, sono sicuri, di avere un padre».
«Sì, ma che possiamo noi, io e te, che siamo niente, gingilli al cospetto del grande Crono? Da dove cominciare?».
«In qualsiasi modo si voglia definire l’essenza della libertà, in ogni caso essa esprime la realtà di fatto – una realtà che si presenta come evidente all’esperienza interiore benché il pensiero non possa risolverla ulteriormente – che l’uomo non è soltanto un trasformatore di energie, ma è initium, inizio; che l’uomo ha iniziativa, nel senso che ha, al proprio interno, un’originaria forza di “iniziare”; e che per questo deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità. Con questo l’uomo trascende tutte le modalità con cui nelle altre realtà naturali l’energia diventa attiva. Egli è persona; ma ciò è qualcosa di grande e gravido di destino. Sono parole di Romano Guardini, pronunciate davanti ai suoi studenti nel 1958, ricordando quel canto di nobile umanità che è stata la vita dei ragazzi della Rosa Bianca. E si era in pieno nazismo. Questa è la forza dell’io: un canto irriducibile. Qualunque sia la circostanza, quel canto ti dice che si può iniziare sempre».
«Se solo si potesse risvegliare questo qualcosa di grande e gravido di destino.».
«Scusa, ma non ci ardeva forse il cuore nel petto.?».
* insegnante di Italiano
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