Cari cattolici, la piazza aspetta voi

Diceva quel galantuomo di Gilbert Keith Chesterton che la famiglia è il test della libertà, perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé. Poiché chi scrive difende tenacemente i diritti naturali della persona e della famiglia, e di tutte le libere associazioni in cui persona e famiglia estrinsecano il proprio diritto preesistente a quello dello Stato e di ogni altra comunità pubblica, affermo fuori dai denti che non sono molto convinto di come i cattolici italiani abbiano sin qui mostrato di esprimere la propria posizione nel grande dibattito che si è aperto intorno ai Dico. E quando parlo di cattolici li intendo come singoli, nonché come aderenti alla molteplice famiglia di corpi intermedi, associazioni e movimenti ecclesiali e culturali, accademici e professionali, che compongono storicamente e tradizionalmente il mosaico ricchissimo e composito della presenza cattolica nella vita pubblica italiana. Capisco perfettamente che, nella temperie sempre più arroventata che ha finito per acquisire il tema, e nella coincidenza temporale del cambio di guida al vertice della Cei, migliaia di intellettuali, dirigenti e associati dei movimenti cattolici abbiano preferito guardare con circospezione e rispetto alle pronunzie delle gerarchie, allo scopo di evitare passi falsi e ulteriori surriscaldamenti d’atmosfera. Ma la circospezione e la prudenza, talvolta, finiscono per sortire effetti peggiori dei danni che intendono evitare.
Non intendo certo insegnare il proprio mestiere ad alcuno, né ergermi a maestro di coerenza pubblica altrui, su temi così alti che chiamano l’identità e la fede di ciascuno a conti assai taglienti. Ma avrei visto bene, e continuo a considerare preferibile, un’iniziativa spontanea e autoconvocata, estesa alla più ampia e rappresentativa forbice del laicato e dell’associazionismo cattolico, tale da affermare nella difesa della famiglia fondata sul diritto naturale un’iniziativa pubblica lanciata ed estesa al di là della stretta pronunzia della gerarchia. Non si tratta affatto di tornare al passato, a scelte come quelle che indussero quello che un tempo era il partito unico dei cattolici a iniziative politiche che ne registrarono la condizione di minoranza nella società italiana, su temi come il divorzio e l’aborto. Proprio perché il testo sui Dico è un disegno di legge espressione di un governo ma non di una maggioranza coesa sul punto, e proprio perché la sua eventuale approvazione appare assai problematica in un Senato come quello attuale, forse una bella autoconvocazione di cattolici volenterosi avrebbe sortito e sortirebbe effetti positivi: preservare il più possibile il vertice Cei, presente e passato, da polemiche politiche di prima fila; attenuare la pregnanza dell’accusa rivolta alla Chiesa di voler forzare la mano al Parlamento; lasciare aperto il campo a una molteplicità di successive possibili iniziative di modifica del testo di legge o di slittamento nel calendario parlamentare; aprire alla possibilità che esponenti dei partiti della maggioranza aderiscano, senza sentirsi vincolati da logiche di disciplina politica, o frenati da conflitti di coscienza rispetto alla durata in carica del governo. Forse, certo, chi è nato e cresciuto laicissimo come chi scrive tende a sottovalutare il senso di adesione alla gerarchia che è fondamento della fede cattolica e del primato petrino. Ma, al contempo, don Sturzo in politica e Antonio Rosmini prima di lui non aspettavano certo le prese di posizione ufficiali della gerarchia, per difendere i propri valori in maniera pubblica e coerente.

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