
Caro Presidente Napolitano, cos’è la giustizia senza la verità, tutta la verità?
Caro Presidente, perdoni se oso rivolgermi a Lei con confidenza e affetto, ma prima che essere direttore di un giornale, sono un figlio di questo nostro grande paese. Ed è questa appartenenza alla comunità nazionale di cui Lei è il più alto rappresentante e garante, la ragione che mi spinge a scriverLe.
Presidente, nel suo discorso ai partecipanti al Meeting di Rimini, il 21 agosto scorso, Lei ha ricordato un dato drammatico, che mai è stato registrato nella storia italiana. «È da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali; è da vent’anni che, al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività».
Vent’anni di guerra tra poteri
Dunque, Presidente, cos’è accaduto di così fatale, di così inusitato, di così deprimente nell’Italia degli ultimi vent’anni, tale da generarne il declino e da compromettere il futuro dei suoi giovani? Non pensiamo di essere unilaterali se, guardando il presente e rievocando il passato, registriamo nella conflittualità permanente tra politica e giustizia la nota dominante della società italiana. È come se da vent’anni la nostra gente fosse immersa nell’acre fumo di una guerra che, con le sue rabbiose cotrapposizioni e le sue interminabili divisioni, ha reso impresa pressoché disperata il ristabilimento di fattori minimali di dialogo e frustrato ogni sforzo di pacificazione teso a riportare al centro della scena il bene e il futuro degli italiani.
Presidente, Lei a Rimini ha reclamato testualmente la necessità di «una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell’Italia, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro». E a proposito di riforme ha così sintetizzato: «Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto: mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia».
In effetti, Presidente, correva l’anno 1993 quando un sistema politico incapace di autoriformarsi venne travolto dalle inchieste giudiziarie. Dalle ceneri della cosiddetta Prima Repubblica emerse un nuovo ceto politico. Oggi sembra sia divenuto ovvio giudicare quel ceto come una “Casta” che non sarebbe neppure all’altezza della classe politica rimossa per via giudiziaria quasi vent’anni orsono. Ora, al di là della pochezza che si può riscontrare in tanta politica attuale (che per altro non viene dalla luna ma è espressione del voto degli italiani), in che modo, in questo ultimo ventennio, essa avrebbe potuto autoriformarsi e riformare l’Italia, avendo la rappresentanza popolare, il parlamento, i governi che si sono succeduti dal 1994 ad oggi, sempre alle calcagna le procure della Repubblica, o almeno alcune di esse? In tutta evidenza (e per ammissione anche di personalità al di sopra di ogni sospetto, penso all’ex onorevole e magistrato Luciano Violante), in questo ultimo ventennio l’obbligatorietà dell’azione penale si è trasformata nel controllo del potere politico da parte di quello giudiziario. Sia chiaro: nessuno pensa che le leggi non debbano essere rispettate da tutti e che i reati non debbano essere perseguiti. Ma siamo sicuri che in questi ultimi vent’anni l’ordine giudiziario si sia limitato a far rispettare le leggi e non si sia invece collocato al centro della vita politica nazionale? Siamo sicuri che non ci siano stati settori della magistratura che siano andati molto oltre le loro prerogative?
Auerbach e la parzialità della propaganda
È vero, Presidente: come spesso leggiamo e ascoltiamo da molti e più autorevoli nostri colleghi, l’Italia ha bisogno di verità. Ma la verità è tutta la verità. Mentre le radici del conflitto di cui dicevamo sopra sembrano ricadere in quella che il grande critico letterario e intellettuale antitotalitario Erich Auerbach ha definito “propaganda”. «Essa consiste in ciò, che di tutto un ampio discorso s’illumina una piccola parte, ma tutto il resto, che servirebbe a spiegarlo e a dare a ciascuna cosa il suo posto, e verrebbe, per così dire, a formare un contrappeso a ciò che è stato messo in risalto, viene lasciato nel buio. In questo modo viene detta apparentemente la verità, poiché quanto è detto è incontestabile, e tuttavia tutto è falsato, essendo che la verità è composta di tutta la verità e del giusto rapporto fra le singole parti. Specialmente nelle epoche agitate, il pubblico ricasca sempre in questo tranello».
Presidente, fermo restando che nessuno può ergersi al di sopra della legge e nessuna impunità può essere garantita a nessuno, dov’è la verità, tutta la verità, di una giustizia che da vent’anni si fa propalazione di intercettazioni e di gogne mediatiche prima e fuori dai processi nelle aule giudiziarie? Dove sono la dignità della persona, la presunzione di innocenza, il rispetto delle procedure, in un paese dove il materiale d’indagine, l’avviso di garanzia, l’accusa ritenuta già come sentenza, arriva prima sui grandi giornali che ai cittadini imputati? Dov’è l’equilibrio, la prudenza, l’imparzialità di quei magistrati che calcano i palchi delle piazze, compaiono da imbonitori negli show televisivi, collaborano attivamente alla pubblicistica antipolitica e antiparlamentare?
Prima che sia bancarotta
Presidente, come da Lei autorevolemente richiamato tante volte, la situazione italiana è tale che non possiamo più permetterci il lusso di perdere occasioni per dialogare e concentrarci nell’opera di ricostruzione politica, sociale, economica, culturale e morale del nostro paese. Per questo il problema da Lei evocato in modo così equilibrato e convincente al Meeting di Rimini, e cioè «il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia», ci sembra un’occasione di particolare rilevanza se si vuole cominciare a compiere quel coraggioso passo verso la verità tutta intera e la corresponsabilità esigita dalla drammaticità del tempo presente. Infatti, se questo passo non dovesse accadere, cos’altro ci possiamo aspettare dai noti eventi di questi giorni, se non il rischio di un’ennesima fine anticipata della legislatura, la prosecuzione della “guerra”, l’inasprimento della crisi e, in definitiva, il rischio di una “bancarotta della Repubblica”?
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