
Il cielo in un tinello
C’è vita oltre il feud di Taylor Swift
Feud. È la parola chiave dei rapporti di oggi, ora l’ho capito. Feud è un concetto molto diffuso tra cantanti e sublimato (non inventato) da Taylor Swift nel suo ultimo singolo, visto quei 30 milioni di volte in 24 ore. In “Look What You Made Me Do”, che per chi ha amato Roger Rabbit si legge “Non sono cattiva, è che mi disegnano così”, Taylor sbuca fuori dalla tomba della sua stessa reputazione in cui i suoi nemici hanno tentato di seppellirla e si prende metaforica rivincita con allusioni varie verso critici, media, discografici, altri cantanti. Insomma, a tutti quelli che le hanno fatto del male lasciando che agli occhi del mondo lei passasse sempre per la pur di successo scemotta ex-cantante country. E che non ha veri amici o collaboratori o fidanzati (troppo scema), ma solo paga tutti costoro perché facciano quel che devono.
Infine, annuncia che la vecchia Taylor ora non può rispondere al telefono perché – oh! – è morta. Niente più “Shake It Off” (=lascia correre), ora non si lascia correre niente, ora Taylor le canta a tutti, farà nomi (anzi, no, nel feud non si fanno nomi nemmeno sotto tortura: si fa capire di chi si sta parlando con rime, instagrammate sibilline, sguardi annoiati durante le performance altrui ai vari awards) e sarà “cattiva”.
In breve: il feud è un’antipatia. Come anche noi comuni mortali ne abbiamo. A bizzeffe e per tutti i gusti. E anche noi non vogliamo far nomi, non vogliamo metterci a litigare per strada, no. Non vogliamo che gli altri sappiano platealmente, ma facciamo capire. Creiamo neanche troppo taciti schieramenti (per esempio, del team Swift fanno parte, tra gli altri, Selena Gomez e Lena Dunham, se volevate saperlo, ecco). Odiamo quella mamma di un compagno di un nostro figlio, ma non glielo andremo mai a dire; questo stato d’animo lo teniamo al calduccio dentro di noi come un animaletto da accudire e far crescere e alla sventurata riserviamo gelide occhiate davanti a scuola, non facciamo giocare i nostri figli coi suoi, andiamo a bere il caffè in un altro bar, salvo poi inciampare l’una nell’altra al supermercato, di fronte a testimoni che potrebbero decretare chi ha cominciato cosa, e quindi «Ciao, mhm, mhm, sì, ok, certo, ci si vede alla riunione». Non sopportiamo quel vicino di casa casinista e lui può fare il carino quanto gli pare a salutarmi (ts! Salutarmi!): io aspetterò sempre a farlo una frazione di secondo dopo che l’ha fatto lui per primo. Ma lo farò. Stanno antipatici pure alcuni bambini: a quelli la fetta di torta la si dà per ultimi. Sperando comunque che tornino a casa dicendo: «Mi sono divertito un casino!». E via di seguito, moltiplicate gli esempi per il numero di visualizzazioni di cui sopra.
Feud è prolungamento ed effetto di “borghesia”. Di “status quo”.
E intanto l’animaletto cresce, diventa proprio grosso, ingombrante, pesante, si prende tutto lo spazio che c’è dentro di noi: alla fine non rimane altro, e i rapporti rimangono congelati al conteggio punti dei vari team, paralizzati anche nei gesti più semplici e spontanei, incasellati sin dal loro nascere. «I don’t trust nobody and nobody trusts me» conclude senza troppi giri di parole Taylor. Che suona un po’ come: «Tristemente sola, ma almeno ho deciso io di esserlo».
Swift che domina su youtube con questa canzone è l’immagine di uno stile di vita che domina anche tra noi comuni mortali che inciampiamo negli altri nella corsia surgelati, e lo si dà per scontato, fino a quando non si pensa ai figli. Lì stoppiamo il carrello un secondo e mentre allunghiamo la mano verso il sacchetto per la verdura ci chiediamo se sia questo il migliore dei mondi possibili che lasciamo a quei poveretti. Peccato che come spesso accade, mentre io sono lì impegnata a pensare – con un sacchetto di zucchine in mano – a come affrontare la questione, con la coda dell’occhio vedo primogenita che molla un destro sulle chiappe di secondogenito, terzogenito che non resiste alla tentazione di tirare i capelli a quartogenita la quale, con la sua estensione vocale da Adele, rende noto il suo disappunto a tutto il supermercato, allora una signora anziana lì vicina cerca di consolarla: «Ti sei fatta la bua?» e quella, al suo solito simpatica come un calcio negli stinchi, le urla: «No!» scaraventandole via la mano dalla guancia. Allora quartogenita prende la rincorsa per dare una testata a terzogenito, ma lui si scansa, lei va a finire contro le chiappe (di nuovo) di secondogenito che le pianta un pugno in testa. Salta su la legislatrice primogenita: «Idiota, non aveva fatto apposta!» «E tu sei nervosa solo perché ti stanno uscendo le CIUCCE dal corpo!» «STAI ZITTO!!!». Zuffa. Vergogna somma (mia). Visi paonazzi e sudati (loro). Sguardi severi su di me da bel-modo-di-educarli (degli avventori). Pago a testa bassa («Mi dà anche tre sacchetti per favore?»). Esco e appena saliti in macchina divento io paonazza e sudata, per le mie stesse urla, e li minaccio, tra le altre cose, di darli in affido a un’altra, volenterosa, più paziente famiglia.
La lotta fratricida continua anche a casa, sempre, per mille motivi diversi e tutti scemi e allo stesso tempo vitali, come sanno essere le motivazioni dei bambini. Come sono serie le cretinate a quell’età! Continuano le BOTTE, sì, proprio quelle. Cito a memoria – ma non posso elencarle qui tutte per mancanza di spazio: spintoni, tirate di capelli, sberle, cuscino ad uso soffocamento, lancio di oggetti contundenti, forchettate – c’è tutto il capitolo “a tavola” – e se uno tappa la bocca all’altro l’altro allora gliela lecca (AFFRONTO SUPREMO! TUTTO MA LA SALIVA NO!).
Niente rime, niente instagrammate sibilline con serpi e corna, niente allusioni, ma nervi saldi, pugni chiusi e ugola calda: si sale sul ring. Pensavo di dover risolvere una questione, ma non posso non fermarmi invece a osservare quanto i figli, nella loro brutale immediatezza, nella loro primordiale sete di giustizia, dimostrino, almeno, di essere dominati da qualcosa di diverso che l’“animaletto” dell’odio. Sono dominati – cioè completamente presi da, sicuri lì dentro – dall’amore dei genitori che, in quanto incondizionato, rende liberi. Qualsiasi cosa faranno, qualunque numero di ciocche di capelli rimanga loro in mano, per quanto dolorosi siano i pugni che affondano nelle pance dei disgraziati che dormono di fianco a loro, loro sanno che saranno perdonati, e poi ancora amati.
Ho nostalgia di quell’amore, anzi, del mio abbandono ad esso. Ho nostalgia di quell’essere figlia. Ma la nostalgia è mancanza di qualcosa del passato, mentre si è vivi ora e si ha bisogno ora.
I bimbi cosa fanno quando hanno bisogno? Chiedono. Incessantemente, insaziabilmente, disgustosamente (il bicchiere d’acqua quando è ora di andare a letto; di andargli a pulire il sedere dopo che si sono espressi sul water; tutto quello che vedono in vetrina; quando arriva quella figurina; quando si arriva e/o quando ci si ferma per pipì/cibo; moltiplicate sempre tutto per le visualizzazioni di cui sopra…).
Mentre sogno un mondo migliore, un mondo dove Taylor prende un caffè con Katy (Perry: nemicissima! Super-feud!) e fanno pace e fanno un duetto, e contemporaneamente mi sento irrimediabilmente lontana dal coraggio e dalla forza di quel chiedere, butto l’occhio sul foglio su cui ho preso appunti e vedo parole e disegni che un ancora incerto terzogenito ha scarabocchiato copiandole dall’opera omnia di secondogenito “Guida alle creature sovrannaturali”. In effetti, si può cominciare anche con il… “copiare”, con l’imitare uno più grande, e pian piano diventare anche noi abbastanza grandi per far affiorare alle labbra una domanda (la più alta e appagante espressione dell’essere adulti) e chiedere: «Mi ami?».
Foto Ansa
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