
Cento di questi anni bambinone Federico Fellini

Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Cento anni. E chi ci crederebbe che quel bambinone di Federico Fellini, sfrontato e beffardo, compie cento anni? Scusate il presente, inadeguato per ricordare un uomo scomparso il 31 ottobre 1993. Ma non si può negare che sia quasi d’obbligo, oggi, a 27 anni dalla morte: in un certo senso, la distanza ha reso evidente che non c’è vaccino al contagio della vitalità di Fellini. Lo sa chi l’ha incontrato, chi l’ha seguito nel suo percorso, chi si è sentito eletto da un suo sguardo, dalla simpatia esagerata, a volte addirittura fuori luogo, che il maestro distribuiva con generosità. E lo sa chi, per sbaglio o per noia, ha acceso una notte la tv su un canale sbagliato, ed è rimasto poi sveglio fino all’alba, sedotto dalla luce misteriosa di un bianco e nero di raro splendore o dai colori vividi di un film diverso da tutto quanto aveva visto prima.
Il miracolo si ripete ogni volta: ci si sente vivi, guardando e riguardando la vita che Federico, il Faro – come lo chiamavano le maestranze a Cinecittà –, raccontava con quella sua incredibile grammatica, fatta di regole difficili da registrare perché mutevoli, suggerite dalla sintassi del racconto, definite dai fatti narrati, ogni volta coraggiose e diverse. Perché è vero che si può leggere l’opera di Fellini come un’unica storia che si snoda coerente dai primi anni Cinquanta fino ai Novanta, e che abbraccia il clown Gelsomina e la prostituta Cabiria, il vitellone Moraldo che scappa dalla provincia e il giornalista Marcello che regna su via Veneto, il ragazzino Titta e il vagabondo Ivo. Insieme a tutti gli altri: il saltimbanco Zampanò, i clown, il suonatore cieco, la corte dei miracoli di cui lui è re. Ma si tratta di un percorso dove nessuno ha stabilito che tipo di rapporto il cinema debba intrattenere con la vita e con la storia.
Fellini reinventa i codici di questo legame. «Qualcuno ha detto che la vita o la si vive o la si scrive. Mi sembra di propendere per la seconda definizione», diceva. Ed ecco la grande libertà con cui Fellini sovrappone alla vita il racconto della vita, arrivando a volte fino quasi a confonderli. Anche in questa libertà – spesso dolorosa, mai inutile – che stravolge i contorni delle cose per renderle riconoscibili, per portarne alla luce il significato senza tradire il dettaglio, si nasconde il segreto della sua grandezza di autore e di uomo. E il fascino che il suo cinema esercita è in fondo legato sempre alla tensione, all’attesa, al desiderio di questo rapporto. Una questione morale, se vogliamo: la morale del linguaggio, quella di Hitchcock e di Godard, quella che non perdona. Un esempio per tutti, tanto clamoroso da non poter essere ignorato: il mare, l’infanzia, il fascismo, l’Italia in un film del ’73, Amarcord. Una meravigliosa invenzione in cui Rimini, città graziata, rivelata a se stessa da uno sguardo d’amore, si è abusivamente rispecchiata. E lui, che in fondo voleva raccontare soltanto una stagione dell’anima, lascia fare sornione. D’altra parte, ha già fatto lo stesso miracolo con Roma, con la Venezia di Casanova, con l’Italia tutta.
Insomma, vale la pena di conoscerlo, questo Fellini, e non solo per i cinque Oscar che si è portato a casa (hanno vinto la statuetta di “migliore film straniero” La strada, Le notti di Cabiria, 8½ e Amarcord; nel ’93 a Fellini è stato consegnato, dalla Loren e Mastroianni, l’Oscar alla carriera), non proprio per i moltissimi premi conquistati nel mondo, dalla Russia al Giappone a Cannes. E comunque, chapeau a un italiano conosciuto e amato dovunque. Meno da noi, in realtà, e pochissimo tra i più giovani, nonostante gli sforzi al limite dell’imbarazzante del Comune di Rimini che al cineasta ha intitolato tutto, ma proprio tutto. E passi l’aeroporto, il museo, la fondazione o la piazza del Grand Hotel: ma si è mai sentita una via che si chiama “Una agenzia matrimoniale” (un corto del film Amore in città, 1953) o addirittura “Le tentazioni del dottor Antonio” (episodio del film Boccaccio ’70, 1962)? Qualcuno ha mai chiesto il parere ai postini? Lui ci avrebbe riso su.
Non è per i premi o per il successo, che conviene incontrare Fellini in questo anniversario dei cento anni dalla nascita, ma per riscoprire come ha saputo utilizzare la ragione e il cuore nel suo cinema. E forse anche nella vita. Con quell’impasto di oscurità e di luce che vivono i suoi personaggi, eredi inconsapevoli del neorealismo, almeno per quanto riguarda la compassione da cui sono abbracciati, vero leit motiv di Rossellini, e anche figliastri di quel realismo poetico alla De Sica e Zavattini, compresi vezzi e retorica così efficaci oltreoceano. Qualcosa di nuovo nasce e cresce con Fellini. E si misura con i cambiamenti della storia che hanno fatto del secolo breve un momento di confine, con un passato che non vuole morire e un futuro che già preme alle porte per rivendicare la sua eredità.
Prendete La dolce vita, la lezione di storia meno sentimentale che il cinema conosca. C’è già tutto in quell’inizio, con un Cristo appeso all’elicottero che sorvola le terrazze romane tra i lazzi delle ragazze abbigliate con i primi bikini. È il 1960: bastano a Fellini 178 minuti per raccontare attraverso i toni autorevoli della profezia la secolarizzazione, il fascino dell’America, i nuovi mostri. In prima fila, insieme a Marcello e Anita, insieme all’autore, ci siamo noi, gli spettatori, a soffrire e godere per il nostro destino come per la partita a dadi in cui Mastroianni si gioca l’anima.
Nato con la camicia
Così facile da esportare, così difficile da spiegare, anche a se stessa, l’Italia di Fellini rifiuta le astrazioni. Non è pacificata, democratica, cattolica. Non è comunista e neppure è unita, l’estrema utopia risorgimentale. Lui, invece, ogni tanto accetta di lasciarsi definire, anche se a malincuore, a disagio. Dandosela a gambe appena possibile, dicendo bugie, trovando scuse. Come quando combatte una battaglia perduta contro le interruzioni pubblicitarie dei film in tv o quando regala un incredibile spot d’autore a Giorgio La Malfa, segretario del partito repubblicano, in memoria del padre Ugo, dice lui, più probabilmente perché non riesce a tirarsi indietro di fronte alla richiesta. In compenso, una volta che ha fatto qualcosa, compresi i film, non ci pensa più. Non li rivede, non ci perde tempo, non ne cura il percorso, il doppiaggio o la promozione all’estero.
Il certificato di nascita di Fellini informa che il bambino è nato “con la camicia”, cioè avvolto nel sacco amniotico. La pubblicistica online conferma che è un evento raro, una su 80 mila nascite. Se consideriamo però l’informazione come la metafora che sembra e ci chiediamo in che cosa sia consistita la sua fortuna, scopriamo che nelle interviste registrate con lui ritorna spesso la parola “testimone”. Gli piaceva ripetere che «è l’unica cosa da fare. Coinvolge pochissimo, l’essere testimoni». Basta essere presenti. E allora forse c’è una terza via, tra la vita che si vive e quella che si scrive. E allora forse non gli dispiacerà, là dove si diverte adesso – insieme a Giulietta, moglie, amica e attrice prediletta, insieme a Pier Federico detto Federichino, nato il 22 marzo 1945 e morto appena un mese dopo, il 24 aprile –, sentirsi definire, invece che artista, maestro, genio, come un uomo che rispondeva alla realtà.
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Si terrà venerdì 21 agosto la grande serata del Meeting dedicata ai 100 anni di Federico Fellini. Francesca Fabbri Fellini, ultima erede del maestro riminese, dialogherà con ospiti come Giuseppe Tornatore, Sergio Rubini, Nicola Piovani, Matteo Garrone, Liana Orfei, Pupi Avati, Emir Kusturica, Carlo Verdone…
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Foto Ansa
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