Che intenzioni ha la Bce con l’Italia?

Il 9 settembre si discute il piano di acquisto titoli messo in atto per la pandemia. Un momento cruciale per il nostro paese. Intervista a Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fmi

Cosa bolle in pentola alla Banca centrale europea? Complice la crisi innescata dalla pandemia, la risposta a questa domanda riveste un’importanza cruciale. La ripresa è appesa a un filo e, oggi forse più che in passato, i destini dell’economia italiana sono legati alle decisioni di politica monetaria di Francoforte.

Giovedì 9 settembre il board della Bce si riunirà per discutere di importanti questioni, e abbiamo chiesto a Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, quali potranno essere le conseguenze a breve e medio termine per il nostro Paese.

Dott. Lombardi, come arriva l’eurozona all’appuntamento con il comitato esecutivo?

Partiamo dai fatti. Nel terzo trimestre c’è stato un rimbalzo verso l’alto del prodotto interno lordo, e anche l’Italia ha beneficiato di un significativo +4,7% su base annua. A fronte di questa crescita del Pil, c’è stato anche un rialzo dell’indice dei prezzi.

La pandemia fa ancora paura?

Il positivo andamento delle campagne vaccinali nell’eurozona sembra rassicurare sui possibili effetti della variante Delta, o di altre future varianti. Grazie all’incremento nelle percentuali di immunizzazione è stato possibile riaprire settori in precedenza costretti a forti rallentamenti o, peggio, a fermarsi del tutto.

Quali sono, invece, le aspettative per i prossimi mesi?

Questo aspetto verrà chiarito giovedì, quando Francoforte renderà note le previsioni per il trimestre successivo. L’inflazione per quest’anno sarà più elevata, si potrà attestare poco sotto il 2%, un valore comunque inferiore al target della Bce. È opinione comune tra gli economisti ritenere che il rialzo al quale stiamo assistendo oggi andrà ridimensionandosi nei prossimi mesi. Giovedì capiremo se questa visione trova supporto anche nell’analisi della stessa Banca centrale europea.

Poi ci sono le importanti questioni di politica monetaria.

Sebbene le decisioni siano attese solo per il prossimo dicembre, gli operatori si aspettano che in quest’occasione la presidente fornisca qualche indicazione su come si potrebbe evolvere il Pepp (Pandemic emergency purchase programme), il piano di acquisto titoli messo in atto dalla Bce a seguito della pandemia per evitare la deflazione e favorire la ripresa. Per il nostro Paese questo è importante per almeno due motivi: prima di tutto perché l’Italia è stata tra le più colpite dal Covid, e poi perché il Pepp prevede una maggiore flessibilità in termini di capital key (la regola che disciplina la distribuzione degli acquisti di titoli in funzione della percentuale di capitale della Bce sottoscritto da ogni singolo membro dell’eurozona, ndr) rispetto agli altri programmi. Avere o non avere il Pepp per l’Italia, dunque, fa differenza.

Proviamo a tracciare, per quanto possibile, uno scenario realistico.

Man mano che l’eurozona tornerà ai livelli di crescita pre-pandemia, evento atteso tra la fine dell’anno in corso e la prima parte del prossimo, sarà verosimile attendersi una ricalibrazione degli strumenti di intervento. Tuttavia, l’Italia sarà tra gli ultimi a rimettersi in sesto, perché la sua è una dinamica più fragile rispetto a quelle degli altri Paesi. Per questo motivo, a tutti interessa comprendere le intenzioni della Bce, ma in modo particolare interessa a noi. Il combinato disposto tra un eventuale stop al Pepp e la reintroduzione del Patto di stabilità nel 2023 rischia di calmierare gli effetti espansivi del Next generation Eu. Conforta sapere che la Bce ha precisato come qualsiasi ricalibrazione verrà effettuata con gradualità e, altro aspetto innovativo, guardando alle condizioni di mercato dei titoli di Stato. Rimane comunque una condizione di fragilità, data dal basso potenziale di crescita e dall’elevato debito pubblico, anche perché ancora non sappiamo come e se il Patto di stabilità potrà essere riformato. La sua reintroduzione nel 2023 rischia di compromettere la stabilità della nostra ripresa, qualora tale reintroduzione non fosse accompagnata dall’introduzione di elementi di flessibilità nell’arco del medio periodo.

Torniamo all’inflazione. Perché fa tanta paura?

Alcuni Paesi si aggrappano allo spauracchio dell’aumento dei prezzi, senza però considerare che la Bce ha fallito per anni nel tentativo di centrare l’obiettivo del 2%. In altri termini, il tema dell’inflazione viene utilizzato in modo strumentale per giustificare un rientro dal Pepp.

Francoforte saprà reggere alla pressione dei “falchi” che da sempre si oppongono a questo e altri programmi di acquisto titoli?

La Bce ha già comunicato che il Pepp, la cui scadenza provvisoria è fissata a marzo del 2022, rimarrà attivo per tutto il tempo necessario. È chiaro che, trattandosi di una banca centrale multinazionale, esistono sensibilità nazionali assai diverse.

Nel futuro sarà possibile conciliare i desiderata in termini della stabilità dei prezzi con gli imprescindibili obiettivi di crescita economica dei singoli Paesi?

La Bce deve rimanere focalizzata sulla sua mission, cioè raggiungere l’obiettivo di tenere l’inflazione al 2%, come definito nella sua recentissima Strategy Review. Il problema negli ultimi anni, semmai, è stato proprio l’opposto, di una persistente bassa inflazione ben al di sotto di quel valore. Nel conseguire il suo mandato dovrà adottare un approccio olistico, tenendo conto anche delle condizioni di deficit e del maggior debito pubblico, come, del resto, l’Istituto di Francoforte ha già riconosciuto. Toccherà a Christine Lagarde il compito di bilanciare le diverse sensibilità e trovare una sintesi che possa essere accolta dalla maggioranza, e qui si entra nella sfera della politica più che dell’economia. Ma finora la presidente della Bce ha dimostrato di saper gestire bene la dimensione politica del suo ruolo. Nel futuro, vedremo…

Foto Ansa

Exit mobile version