Che sia il ’68 o l’invenzione del “centrosinistra”, la morte dei padri è sempre figlia del disimpegno

Un padre che sta cresimando la figlia, ed è quindi impegnato in un confronto con quel che resta della tradizione, mi scrive ponendomi due domande. La prima è questa. «Appartengo alla generazione che ha fatto, o subìto, il ’68. La mia generazione, si dice, ha prodotto uno strappo con la storia precedente e ha creduto di poter ricostruire la propria vita a prescindere da qualunque dato della tradizione. Ma siamo stati noi gli attori di questo strappo, o le prime vittime di qualcosa già avvenuto nella generazione che ci ha preceduto? Invece che un’uccisione del padre non c’era forse già stato un suicidio dello stesso, con il quale una generazione ha deposto la propria responsabilità verso quella successiva?». Ed ecco la seconda domanda. «La mia generazione, definita da un mito rivoluzionario, mutuato da quella precedente, oggi ha a sua volta figli. Mi domando però: ma questi genitori amano i loro figli? E ancora: i genitori amano i loro figli più dei loro sogni? Tanti genitori di oggi sembrano vivere un’adesione morbosa ai loro sogni giovanili tanto da creare le condizioni nelle quali i propri figli muoiono, moralmente ma sempre più spesso anche fisicamente».
Il lettore va dritto a questioni che da tempo assillano anche me, che ho ugualmente partecipato, anche se più da grande, al generale sommovimento del ’68. Questioni non teoriche, ma molto pratiche. Che ci aiutano a spiegare, per esempio, come mai la classe dirigente italiana, unica in Europa, abbia completamente nascosto e rimosso per vent’anni il rischio cannabis, in cui i loro figli e nipoti cominciavano ad affondare, con conseguenze a loro perfettamente note. La mia risposta è che, in effetti, il ’68 non ha ucciso nessun padre, e nessuna tradizione. Col movimento iniziato nel ’68 i figli hanno percepito, sofferto, e anche confusamente protestato contro la sostanziale assenza affettiva e simbolica dei padri, che cercavano di convincerli del carattere allegorico e non sostanziale delle tradizioni, e che voler bene a loro, ai figli, non voleva dire impegnarsi fino in fondo, e coerentemente, per un mondo migliore.
Il relativismo non l’ha inventato il ’68. Il relativismo quotidiano, quello per cui nessuna tradizione era autentica, ma tutto l’esistente era un bric a brac “culturalmente costruito”, pezzi diversi messi insieme e smontati a seconda delle necessità, l’ha inaugurato l’era del “centrosinistra”, iniziata nel 1960 quando la piazza sindacalizzata di Genova costringe il legittimo governo Tambroni alle dimissioni e ingloba il Partito socialista, ancora in buona parte marxista, nell’esecutivo. Sorretto comunque dai sindacati e dall’esterno (come hanno dimostrato i politologi americani) dal Pci. Questa resa, da parte della classe dirigente cattolica e liberale, comunque anticomunista, non fu un gesto d’affetto e impegno verso i figli, ma di comodità. I padri scelsero la spartizione del potere anziché l’affermazione dei princìpi e delle tradizioni a essi legate, suggerendo ai figli che non c’erano verità, ma solo interessi, negoziabili con accordi. I figli protestarono in nome di rivoluzioni immaginate (che nella realtà erano stermini organizzati). E oggi, a loro volta al potere, si regolano nello stesso modo: un “carpe diem” brutalmente individualista, che non si fa carico dei figli e delle prossime generazioni.
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