Chi non esporta di sinistra è

Di Tempi
23 Giugno 1999
Il grafico della settimana

Sulla svalutazione dell’euro, la moneta dell’Unione Europea che in poco più di cinque mesi ha perduto il 14 per cento del suo valore passando da una parità di 1,166 col dollaro a una di 1,047, esistono due scuole di pensiero. La prima lancia l’allarme sull’indebolimento della moneta, che è un segnale della scarsa competitività del sistema produttivo europeo e che comporterà crescenti oneri per l’acquisto delle materie prime quotate in dollari (anzitutto i prodotti petroliferi); la seconda dice che non c’è da preoccuparsi, perché un euro ricondotto a valori più “credibili” permetterebbe all’Europa di piazzare più facilmente i suoi prodotti sui mercati mondiali. In Italia questa seconda lettura della situazione ci è familiare, perché per decenni abbiamo “drogato” la competitività dei nostri prodotti per mezzo di svalutazioni competitive della lira. Perciò la domanda che ci si fa è la seguente: quanto incideranno le oscillazioni dell’euro sull’andamento delle nostre esportazioni?

Bisogna tenere presente che la situazione attuale delle esportazioni italiane non è rosea: dopo il boom del 1992, scatenato dalla crisi speculativa che mutilò la lira di oltre il 30 per cento del suo valore, il livello delle esportazioni è andato lentamente abbassandosi, e all’inizio del 1998 (ultimo dato disponibile) era solo 4-5 punti sopra i livelli del 1991, dopo aver segnato anche più 15. Ma indubbiamente c’è chi sta peggio dell’Italia: all’inizio del ’98 la Germania esportava l’86-87% di quanto esportava nel ’91, la Gran Bretagna il 91%. E c’è chi sta meglio: alla stessa data, le esportazioni degli Stati Uniti erano pari al 110% di quello che erano nel ’91. La Francia, per parte sua, presenta un dato costante nel tempo. Come si spiegano queste differenze? Con la diversità dei sistemi produttivi, fiscali e del lavoro. Gli Stati Uniti vantano alti tassi di innovazione tecnologica, bassi prelievi fiscali e forte flessibilità del mercato del lavoro, perciò esportano bene. La Francia presenta una tassazione delle imprese molto alta, ma questa è compensata dalla forte produttività per ora di lavoro (la più alta fra i paesi del G7). La Gran Bretagna presenta gli stessi vantaggi competitivi degli Usa, ma anche una scarsa produttività e una forte presenza sui mercati asiatici, che negli ultimi anni hanno conosciuto drammatiche crisi. La Germania ha una moneta “troppo” forte, un costo del lavoro molto alto e pure essa è esposta sui mercati asiatici: di conseguenza perde colpi. Quanto all’Italia, i dati parlano chiaro: dalla svalutazione del ’92 fino al governo Berlusconi le esportazioni sono sempre andate crescendo, dopo la caduta del governo Berlusconi sono sempre andate diminuendo. Con l’alta tassazione sulle imprese e l’insopportabile costo del lavoro per via dell’alto prelievo fiscale sulla busta paga e della rigidità del mercato del lavoro, la sinistra sta riportando le esportazioni italiane ai livelli del ’91.

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