Ci aspettano ancora lacrime e sangue

Promettere è meglio che mantenere, perché la speranza dura più della riconoscenza. È la logica ferrea alla quale si ispirano i lunghi mesi in cui la politica italiana si concentra prima sulla preparazione, poi sulla presentazione, sulla reiterata riscrittura successiva, e infine sull’approvazione in Parlamento di quel mostro omnibus che (sinché non si cambieranno dalle fondamenta le barocche procedure di contabilità pubblica del nostro paese) è la legge finanziaria. La prima preoccupazione di chi qui scrive – che non nutre speranze né aspettative, ve lo dichiara subito – è che gli attuali decisori pubblici prestino assai poca attenzione ai sinistri segnali di frenata che provengono dalla congiuntura internazionale. La crisi delle Borse colpisce ormai l’economia reale: Stati Uniti e la Germania (il paese core dell’Unione Europea, dal cui andamento noi dipendiamo assai più che dai risicati consumi interni) ad agosto hanno mostrato dati terribili di gelata, che non si vedevano da anni. In tale contesto, metter mani a un serio taglio delle aliquote marginali e medie dovrebbe rappresentare un dovere ancor più incontestabile, ma temo che non sarà così.
Sul versante delle entrate, in estate Visco ha messo a punto una strategia in tre mosse rivolta a sostenere l’ipotesi di un cambio di marcia, dopo il viso dell’arme della scorsa Finanziaria. Tale strategia si incentra sull’ipotesi di un forfait per tutte le partite Iva o piccole imprese sotto i 30 mila euro, in maniera di ridurre a un unico adempimento i vari Irpef, Ires, Irap. Ma i criteri di cui si ha avuto notizia sono così restrittivi, per i coefficienti di abbattimento dei beni strumentali e in relazione ai dipendenti, che la soluzione appare sconsigliabile a chiunque voglia “crescere”. Il secondo strumento è la riduzione di alcuni punti di aliquota media dell’Ires per le imprese: ma attenzione, senza scalzare affatto i privilegi di cui godono le società di capitale e le grandi imprese iperfinanziarizzate, che oggi pagano aliquote anche di 40 punti inferiori al 99 per cento delle imprese italiane, le piccole appunto. L’idea infatti è quella di varare un taglio all’Ires a parità di gettito estendendo la sua base imponibile, e ripristinando alcuni elementi della Dit (cavallo di battaglia vischiano abolito da Tremonti), che annienta la neutralità teorica a cui ogni tassa dovrebbe essere volta per “premiare” le società più finanziarizzate. Il terzo elemento dovrebbe consistere in uno sgravio per l’Ici sulla prima casa: ma qui siamo in alto mare, almeno a oggi. E in ogni caso i Comuni richiedono che le risorse che così veranno meno vengano quanto meno compensate, se non accresciute.
Ecco perché, perciò, la spesa pubblica allo Stato attuale non ha alcuna possibilità di essere diminuita. Il Libro Verde del ministro Tommaso Padoa-Schioppa parte dal presupposto che non sia affatto vero che più spesa pubblica in rapporto al Pil faccia crescere di meno un paese. Ma ciò vale solo per quei pochi paesi in cui la spesa è efficiente: noi, come testimoniano le stesse impietose tavole comprese nel libro di Tps, su questo fronte siamo in fondo a ogni graduatoria europea. Di conseguenza, nella terza settimana di ottobre, quando le primarie del Pd si confronteranno con le manifestazioni di protesta della sinistra antagonista e con l’avvio della consultazione tra tutti gli iscritti ai sindacati confederali in materia di protocollo del welfare, è inutile illudersi: con ogni probabilità parleremo ancora di finti sgravi a gettito invariato o accresciuto e di più spesa pubblica. Per chi crede in un paese che con meno tasse dia più spazio al privato sociale, ci sarà da aspettare ancora.

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