La vera guerra fredda tech tra Cina e Stati Uniti è sull’energia alternativa

Biden frena gli investimenti in AI, supercalcolatori e microchip: «Significativi rischi per la sicurezza nazionale». Ma sottovaluta l'egemonia di Pechino sul mercato della tecnologia pulita, ben più rilevante in termini strategici della modernizzazione militare

Una fabbrica di pannelli solari in Cina (Ansa)

Come era prevedibile nonostante l’apparente disgelo rappresentato dalla visita del ministro del Tesoro americano Janet Yellen a Pechino ai primi di luglio, il presidente Biden ha annunciato mercoledì un ordine esecutivo che prevede il bando degli investimenti statunitensi nell’informatica quantistica, nei chip avanzati e nei settori dell’intelligenza artificiale cinesi. L’obiettivo di questa come di altre misure che sono state prese negli scorsi mesi è di impedire alle forze armate della Repubblica popolare di accedere alla tecnologia e al capitale americani.

La stretta di Biden sugli investimenti tech in Cina

L’ordine entrerà in vigore a partire dall’anno prossimo. Biden ha dichiarato che il progresso tecnologico nei tre settori presi in considerazione pone «significativi rischi per la sicurezza nazionale» perché i progressi computeristici potrebbero aiutare i cinesi a sviluppare armi sofisticate e a violare i codici crittografici utilizzati dalle agenzie di spionaggio occidentali.

Il provvedimento ha suscitato ansia nei grandi investitori americani che in questi anni hanno operato sul mercato cinese. Come ricorda il Financial Times, «società di venture capital come Sequoia China, GGV e Coatue hanno investito miliardi nel settore cinese della tecnologia negli ultimi due decenni, finanziando la crescita di quasi tutte le grandi aziende tecnologiche, da ByteDance, proprietaria di TikTok, al produttore di droni DJI». Fra gli alleati degli Usa, il Giappone ha già fatto sapere che non intende introdurre ulteriori restrizioni agli investimenti delle proprie aziende in Cina oltre a quelle già esistenti, mentre più possibilisti appaiono Germania, Regno Unito e Commissione europea.

Ma l’Occidente è ostaggio della “clean tech supply chain” cinese

Gli Stati Uniti sembrano concentrarsi sulle misure atte a prevenire – o almeno a rallentare – la modernizzazione delle forze armate cinesi e lo sviluppo delle loro capacità di intelligence, senza dedicare altrettanta attenzione al predominio cinese su prodotti, tecnologie e materie prime di dispositivi per la produzione di energia senza emissione di Co2. Nel momento in cui gli Usa sono rientrati negli accordi di Parigi sul clima e l’Unione Europea approva un ambiziosissimo programma di emancipazione dalle tecnologie tradizionali in campo energetico, è evidente che l’egemonia cinese sui dispositivi che utilizzano energie alternative agli idrocarburi è rilevante in termini strategici altrettanto se non di più della modernizzazione militare della Cina.

In un formidabile approfondimento pubblicato martedì 8 agosto il Financial Times misura l’ampiezza e la profondità della dipendenza occidentale dalla “clean tech supply chain” cinese, la catena di approvvigionamento della “tecnologia pulita” egemonizzata dalla Cina: «La maggioranza degli analisti crede che sarà impossibile per l’Europa raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi sul cambiamento climatico senza mantenere un rapporto molto intenso con Pechino. Persino gli Stati Uniti, che vantano tasche più profonde e un sostegno politico più forte per separarsi dalla Cina, dovranno affrontare un compito immane nella creazione di una nuova catena di approvvigionamento di tecnologia pulita che escluda la Cina», scrive il quotidiano della City.

Terre rare, solare, eolico e investimenti record

La Cina è responsabile della produzione del 90 per cento delle terre rare a livello mondiale, dell’80 per cento e più di tutte le fasi di produzione dei pannelli solari, del 60 per cento delle turbine eoliche e della stessa percentuale di batterie elettriche per auto. Per alcuni materiali utilizzati nelle batterie e per altri prodotti di nicchia la fetta di mercato della Cina si avvicina al 100 per cento. La Cina è il principale produttore in almeno una fase della catena di approvvigionamento per 35 dei 54 prodotti minerali considerati di importanza critica per gli Stati Uniti, secondo un’analisi del Dipartimento degli Interni degli Stati Uniti e dell’ente geologico americano.

Questi e altri calcoli non riguardano solo ciò che viene fatto materialmente in Cina, ma il risultato degli investimenti e delle quote di proprietà cinese nei vari settori all’estero. Il predominio cinese per quanto riguarda le materie prime, per esempio, dipende dal fatto che sono stati fatti investimenti azionari in operazioni di sfruttamento minerario all’estero da parte di grandi compagnie cinesi come l’azienda metallurgica Hauyou Cobalt, l’azienda automobilistica BYD e il gigante delle batterie elettriche CATL. Per quanto riguarda il litio, ad esempio, la Cina detiene solo una piccola quota nell’estrazione mineraria, ma entro il prossimo anno gli interessi cinesi controlleranno più risorse di quelle di cui il paese ha bisogno per scopi domestici. Gli investimenti nei giacimenti di metalli e nelle operazioni minerarie all’estero sono sul punto di registrare quest’anno il loro record storico: nei primi sei mesi del 2023 sono stati investiti 10 miliardi di dollari, cioè più che durante tutto il 2022, e alla fine dell’anno dovrebbe essere battuto il record stabilito nel 2018 con 17 miliardi di dollari.

Il quasi monopolio delle attività di lavorazione

La Cina ha saputo recuperare terreno e passare in testa anche in settori dove non partiva avvantaggiata. Il principale esempio è l’eolico: più della metà di tutte le nuove turbine eoliche che quest’anno saranno installate nel mondo lo saranno su territorio o in acque cinesi. Nella produzione di navicelle, l’elemento che ospita le apparecchiature di generazione di energia della turbina, la Cina detiene una quota di mercato del 60 per cento e sta costruendo più di 60 nuovi impianti di assemblaggio delle stesse, che si aggiungono ai 100 già operativi. All’interno della catena di approvvigionamento delle turbine la Cina detiene una quota di mercato superiore al 70 per cento per molte componenti cruciali come forgiati, cuscinetti di rotazione, torri e flange. Dal 2018 la Cina è diventata il paese col maggior numero di turbine eoliche installate in mare, superando i paesi europei fino ad allora dominanti, mentre già in precedenza era diventato il primo paese per generatori eolici al suolo.

Uno dei punti di forza dell’egemonia cinese sta nel fatto che è nel paese che si trovano gli impianti e la manodopera per processare le materie prime cruciali per le “tecnologie pulite”. Non è il “possesso” delle materie prime che rende la Cina indispensabile, ma il quasi monopolio delle attività di lavorazione. Per quanto riguarda le batterie delle auto elettriche, ad esempio, la quota cinese delle materie prime che servono a produrle è inferiore al 20 cento, ma il paese detiene una quota del 90 per cento del mercato delle versioni lavorate degli stessi materiali. Un esempio istruttivo è quello della produzione di grafite, utilizzata negli anodi della batteria agli ioni di litio. Mentre la quota di mercato cinese delle riserve di grafite è di poco superiore al 20 per cento, la sua quota di mercato per la grafite lavorata è quasi del 70 per cento. Il fatto è che il modo più economico per produrre grafite utilizza l’acido fluoridrico, un materiale altamente tossico che comporta notevoli rischi ambientali (e che è un altro prodotto di cui la Cina è il maggior produttore).

Impossibile competere su risorse, costi, manodopera e incentivi statali

«I concorrenti della Cina devono fare i conti non solo con un accesso limitato alle risorse e coi costi tecnologici, ma anche con carenza di manodopera, inflazione salariale e standard ambientali più severi», scrive il Financial Times. A ciò si aggiungono le economie di scala: i produttori cinesi da subito dispongono di un mercato molto più vasto di quello dei paesi occidentali. Mentre la Cina riesce a costruire un’officina per la produzione di veicoli elettrici in un terzo del tempo del tempo necessario nei paesi occidentali, e una fabbrica di batterie costruita negli Usa costa l’80 per cento in più di una costruita in Cina. E un discorso simile vale per il solare e per l’eolico: sostenuta dalla massiccia domanda interna, la produzione cinese di polisilicio e la sua lavorazione comportano costi pari a due terzi del prezzo di un prodotto di fabbricazione europea. Le turbine eoliche cinesi costano la metà delle rivali occidentali. A tutto questo si aggiungono, ovviamente, gli incentivi statali: per esempio si stima che le sovvenzioni pubbliche al settore dell’auto elettrica fra il 2009 e il 2021 siano state pari a 125 miliardi di dollari.

Allo stato attuale delle cose è evidente che un “decoupling” dell’Europa dalla Cina comporterebbe come minimo il non raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo. D’altra parte molte aziende occidentali dei settori minerario e dell’energia lavorano per committenti cinesi, e sarebbero ugualmente danneggiate da un boicottaggio dei rapporti con la Cina. La stessa cosa vale però per Pechino, che difficilmente potrebbe fare a meno delle tecnologie e dei mercati occidentali. E questo è l’unico motivo di sollievo.

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