Travolti da un insolito destino nel grigio gorgo della cancel culture

Di Piero Vietti
13 Ottobre 2021
Un libro mette alla prova del politicamente corretto il cinema italiano degli anni d'oro. Che oggi sarebbe definito sessista, omofobo e razzista. Istruzioni per salvarlo a tutti i costi
Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto
Una scena del film "Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto"

Se è successo a Via col vento, perché non dovrebbe capitare all’Alberto Sordi di Amore mio aiutami, film italiano del 1969 in cui l’Albertone nazionale corca di botte per quasi tutta la pellicola la bionda consorte Monica Vitti, prendendola a calci, manrovesci e pugni in faccia? E perché non al Sordi che in Io e Caterina si lamenta che «le donne ormai le faccende domestiche non vogliono farle più»? E che dire della «bottana industriale» Mariangela Melato, malmenata da Giancarlo Giannini in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto?

E ancora: Lino Banfi che canta «benvenuti a sti frocioni», Totò che si pittura la faccia di nero e – anticipando di decenni Tale e quale show – fa del blackface prendendo in giro la parlata degli africani, e poi Sophia Loren, Marisa Allasio e Silvia Pampanini che in più di un film fanno girare i maschi arrapati che fischiano e lanciano apprezzamenti (o fanno catcalling?), e i protagonisti del Sorpasso che scherzano su Occhiofino-Finocchio.

Chi minimizza non ha capito niente

Si potrebbero riempire libri con esempi di film italiani che, guardati con l’occhio inquisitore della cancel culture che tanti danni sta già facendo nei paesi anglosassoni, rischierebbero la censura, la damnatio memoriae o quanto meno un trigger warning prima della visione. E un libro Alessandro Chetta lo ha riempito, in effetti. Si chiama Cancel Cinema, i film italiani alla prova della neocensura (Aras edizioni). Chetta si porta avanti col lavoro e immagina «i riflettori puntati e i fucili spianati» sulla corposa produzione di film italiani che oggi verrebbero accusati di sessismo, razzismo, omofobia. In verità il titolo non rende pieno merito alla profondità di questo saggio ben scritto e ricco di spunti: non di solo cinema parla Chetta nelle sue 190 pagine, ma dei «nuovi intendimenti morali» con cui tutta la cultura viene ormai giudicata, anche retroattivamente.

Lo fa senza cadere nei luoghi comuni di chi a forza di urlare alla dittatura del pol. corr. ha perso credibilità, ma non risparmiando nulla e nessuno, soprattutto chi – e sono tanti, intellettuali, giornalisti, opinionisti – in Italia ripete che è un problema americano, al massimo inglese, e deride chi sbottando si lamenta che «non si può più dire niente». «L’Italia non ne sarà immune», scrive, «chi minimizza (quasi tutti) sguazza nell’acqua ora appena tiepida della rana di Chomsky. Da noi s’ignora, ma perverrà, il razzismo dei bianchi contro i bianchi […] Il secondo razzismo rovesciato, trasvalutato, contro il white privilege, è per forza uno stadio inattuale ma venturo». 

Asterischi e disclaimer a Dumbo

Nessuna dittatura, avverte Chetta, a imporsi oggi è semmai «un regno del politicamente corretto, giacché solo nel regno l’indesiderato viene bandito mentre nei regimi totalitari è sbrigativamente soppresso». Non agisce per decreti ingiuntivi, ma lentamente e inesorabilmente «fa spezzatino» del portato storico, «innesca a poco a poco un deragliamento ignominioso» dell’artista, dello scrittore, del giornalista, dell’attore, del regista che si vuole colpire perché non allineato alla cultura oggi dominante o colpevole di qualche nefandezza nella vita privata (vero Woody Allen?). La cancel culture «non è un movimento precisato ma una nube di pensiero collettivo che negli Stati Uniti tuona sul passato rifilando asterischi, alert, divieti e disclaimer a Dumbo e Via col vento, provocando un lento mutamento di segno e percezione in chi guarda».

È il catechismo civile teorizzato dai postmodernisti francesi che ha sedotto i campus universitari e la sinistra liberal americana e si è fatto educazione, informazione e intrattenimento. Ha trovato terreno fertile nel web e «nel contegno di chi oggi si ritiene woke, sveglio, per estensione consapevole delle ingiustizie sociali e per analogia vigile. Vigilanza sulle parole o più spesso sorveglianza da sceriffi talora intrisa di falsa coscienza che non tollera quasi in blocco l’Occidente di oggi e di ieri, “schiavista e imperialista”, e detesta con perfetta autofobia la western civilization».

L’hic et nunc diventa hic et semper

È un odio che l’Occidente prova verso se stesso tentando di correggersi ma arrivando a cancellare il passato. Per il «correttista» l’hic et nunc diventa hic et semper, la fruibilità on demand di un film fa sì che non importi più se è stato girato – è il caso di Via col vento – nel 1939 e parli di un contesto storico e sociale diverso dal nostro, «in rete settant’anni o sette giorni sono pari […] Tale percezione della disponibilità qui e sempre fa sì che la censura correttista per rendersi efficace dovrà retroattivarsi».

Con effetti ridicoli di cui oggi ridiamo (è il caso del Premio sulla letteratura per l’infanzia Laura Ingalls Wilder che da tre anni non porta più il nome della scrittrice morta nel 1957 a cui era dedicato perché nei suoi libri raffigurava i nativi americani in modo stereotipato) ma che a poco a poco plasmano la percezione del pubblico nei confronti di personaggi come Beethoven – elitista bianco –, Colombo – genocida –, Shakespeare – antisemita.

«La pubblica riprovazione ci condiziona», scrive Chetta, immaginando un dialogo editoriale fantasioso ma verosimile sull’opportunità di ricomprendere o meno brani di Indro Montanelli in un’antologia per le scuole: «Meglio evitare, ci sono tanti autori a cui attingere, perché impelagarsi in garbugli polemici…». Il politicamente corretto si fa strada anche da noi, l’asterisco alla fine delle parole e la schwa, inizialmente derisi, stanno prendendo piede sui media, abbiamo iniziato anche noi – per dirla con Robert Huges – a «fabbricare vittime» al posto di santi ed eroi.

Gli alberi di Apocalypse Now

È il diabolico “ma a te che fastidio dà?” con cui passa il principio per cui «se non sei coi deboli sei un aguzzino». Una volta stabilito e accettato che i deboli sono le donne, gli lgbt e le minoranze etniche, nessuno può porre obiezioni a chi dice di volerli tutelare dalle offese nei loro confronti. E poiché la cancel culture non fa differenza tra presente e passato, in nome della difesa dei diritti di queste categorie si sente in dovere di intervenire a correggere anche l’arte, con effetti devastanti. Si comincia dal disclaimer prima dei cartoni animati di Walt Disney e si prosegue applicando i tic più folli del discorso politicamente corretto a qualsiasi cosa. Non si salva nessuno, tutti si sentono offesi da qualcuno o da qualcosa.

Parlando di questo libro sul Foglio, Andrea Minuz ha raccontato di quando, al termine di una lezione in Università su Apocalypse Now, ha chiesto ai suoi studenti se avessero domande: «Alza la mano una ragazza che sembrava molto turbata: “Ma quegli alberi che hanno bruciato erano veri?”. Subito le facevano eco altri studenti: “Ma è assurdo! Bruciare una foresta per fare un film!”. Lo confesso. Ero impreparato. Apocalypse Now non era più un film sul Vietnam, la follia della guerra, l’America della controcultura. Era roba da Greta Thunberg». 

Un popolo di porcelli omofobi

«Senza agitarci, senza strillare», scrive Chetta, «ci ritroviamo cotti nella pentola di una nuova religiosità che non rafforza la laicità ma compie solo un salto da dogma a dogma». Film che un tempo facevano scandalo per scene di nudo nell’Italia bacchettona oggi sarebbero (e sono) censurati per ben altri motivi ma con ancora più veemenza. È il caso di Ultimo tango a Parigi, al rogo la prima volta nel 1972 per la scena di sesso «contronatura» con il burro, e poi di nuovo nel 2007 perché Maria Schneider disse di essere stata costretta contro la sua volontà a girare quella scena.

O il caso di Sissignore di Ugo Tognazzi, film del 1968 in cui la protagonista è una donna-giocattolo “usata” dal marito e dall’amante. La censura di allora tagliò le scene di lei che nuda passava carponi sul letto, quella di oggi, forte della pressione dei social, dei media e delle proteste identitarie, non permetterebbe al film di uscire in sala per come è trattata la donna (anzi, lo stesso regista si autocensurerebbe chiedendo scusa su Twitter per avere pensato a una trama del genere). Ma è anche il caso di gran parte dei film italiani dagli anni Venti agli anni Ottanta, che agli occhi dei sacerdoti del nuovo culto correttista ci dipingono come un popolo di omofobi, maschilisti, porcelli, patriarcali, bianchi e razzisti.

Combattere la cancel culture

Esagerazione? Nel 2020 la Lamborghini fu costretta a ritirare una campagna pubblicitaria di Letizia Battaglia in cui si vedevano alcune ragazze ritratte accanto alle auto di lusso perché «il linguaggio delle immagini e la cultura visuale fanno da scenario al patriarcato e al sessismo». Il volume di Chetta è pieno di esempi spassosi, citazioni del periodo d’oro del cinema italiano, rimandi a film che oggi non verrebbero più girati, ma che non possiamo rischiare di vedere attaccati, censurati o “asteriscati” in nome del correttismo imperante.

«L’arte e il cinema sono le componenti più fragili del quadro», dice Chetta, «le più immediate da colpire nel silenzio, con un tipo di censura che non sarà ovviamente quella classica bensì più sottile e subdola: lasciar dimenticare, ignorare». Difendere l’arte, le opere, per impedire che la cancel culture pervada altri ambiti della vita. Non è ancora successo, non in Italia. Ma succederà. «Respingere la cancel culture – formula comunque sintetica di un potere costituente che ha molte sfaccettature – è la battaglia di questo tempo; altre battaglie su altri fronti sono iniziate anni addietro, sono sempre valide, continueranno. Ma questa inizia adesso, assedianti e assediati sono ancora in forze».

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