Come digerire le odiate stock option

È difficile, a volte, per chi ama il mercato e tenta di difendere le sue regole, trovare gli argomenti per venire a capo di ciò che appare come patente contraddizione. Un esempio: a chi vive di lavoro dipendente e magri stipendi con tasse e contributi da paura, appare del tutto ingiusto apprendere che manager bancari come Matteo Arpe (Capitalia) lascino dopo pochi anni la banca che hanno guidato operativamente sommando a già lauti compensi annuali un premio finale che avrà un valore non inferiore ai 60 milioni di euro. Torniamo all’esempio, nove anni fa, dei cento miliardi di lire di liquidazione dati dalla Fiat a Cesare Romiti, che lasciava la presidenza del gruppo. Spieghiamo innanzitutto le differenze tra i due casi, poi andiamo al punto. Romiti in 24 anni salvò la Fiat, e lo fece ai tempi dei 51 terroristi rossi messi alla porta e della Marcia dei quarantamila, mentre Berlinguer minacciava di occupare gli stabilimenti nei quali si contavano ben 23 mila esuberi da smaltire. Con tutto questo, e diventando nei decenni il garante di un equilibrio aziendale “imposto” agli Agnelli da Mediobanca, Romiti mai pretese né gli furono attribuite stock option, che oggi sono lo strumento principe per incentivare i manager a creare valore e consistono in diritti di acquisto su titoli dell’azienda emessi a un prezzo di solito inferiore a quello di mercato, diritti che una volta esercitati permettono a chi li possiede di contare su ricche plusvalenze. Romiti ha sempre dichiarato di non volerne perché in nessun caso avrebbe fatto dipendere le sue decisioni dal tornaconto personale che gliene sarebbe venuto.
Arpe, invece, in 4 anni e 10 mesi da amministratore delegato ha portato il valore di Capitalia ad accrescersi in Borsa di oltre 15 miliardi di euro. A lui, oltre ai circa 3 milioni l’anno di compensi netti più una liquidazione pari a cinque annualità, sono state attribuite stock option la cui plusvalenza, ai valori attuali, garantisce più o meno 20 milioni di euro di guadagno da sommare agli 8 già realizzati con analoghi strumenti negli anni addietro. Arpe può legittimamente affermare che sia poca cosa rispetto a 15 miliardi di euro di valore creati per i suoi azionisti. Ma per i milioni di lavoratori esclusi dalla grande giostra della compartecipazione agli utili dei soci resta il dito nell’occhio. Quando la forbice dei compensi, dalla più bassa alla più alta qualifica in un’azienda, passa da uno a trenta a uno a trecento – ed è un tema ben vivo anche negli Stati Uniti, patria di queste forme di remunerazione – allora una società rischia di sfaldarsi, e l’odio sociale di moltiplicarsi.
Il governo attuale ha dato una risposta, modificando il regime di tassazione delle plusvalenze da stock option, disincentivando i manager ad attribuirsele e a incassarle in tempi stretti (cosa che contribuisce a renderle molto speculative). Ma molti sostengono che non basti, e che resti per intero il problema di fondo dell’ingiustizia e degli eccessi di un’economia troppo finanziarizzata. Anche il più spinto mercatista, come chi qui scrive, deve per forza riconoscere che il problema esiste. In un suo libro di prossima uscita, l’imprenditore e manager Pier Luigi Celli propone una via di uscita. L’abolizione delle stock option? No. Ma i capi azienda devono cercare di renderle più commisurate ai risultati concreti, non solo a titoli “gonfiati” in Borsa. Ma la questione “sociale” si può affrontare in un diverso modo? Perché non destinare il maggior gettito raccolto con la nuova disciplina fiscale sulle plusvalenze da stock option al finanziamento diretto della ricerca? Non è una cattiva idea, Celli ha ragione. Anche se, forse, agli occhi del lavoratore comune sarà di ben poco conforto.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.