
Come ti smonto (e ti rimonto) Gotye e il suo successo pop del momento
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«Ho appena compiuto un breve viaggio negli Stati Uniti, passando da Dublino. A Milano l’autoradio in macchina dava “Somebody that I used to know” di Gotye. A Dublino il sottofondo del terminal era ancora Gotye, appena arrivo a New York gli altoparlanti rifilano Gotye e alcuni miei parenti in Canada, che cosa stavano ascoltando al mio arrivo? Ancora Gotye e il suo tormentone. È impressionante come un brano decisamente minore, direi “low fidelity”, senza grandi pretese, per una strana alchimia sia diventato un successo di portata mondiale» afferma a tempi.it Walter Muto, musicista e musicologo.
Parte da qui Muto per smontare il giocattolo. «Le note iniziali altro non sono che una melodia popolare francese, da cui addirittura Mozart trasse variazioni al pianoforte. Poi parte la voce di Gotye, che sembra il fratello di Sting, a destrutturare l’impianto originale in do maggiore, trasportandolo in re minore e dando alla canzone un significato quasi inquietante».
Quante volte abbiamo ascoltato questo brano, senza renderci conto dell’arrangiamento. «Tutto dipende da questo “hook”, questo gancio iniziale che attira l’attenzione dell’ascoltatore fino all’esplosione del ritornello e che ricorda da vicino alcune produzioni anni ’80 dei Talkin’ Heads, suoni etnici in commistione con l’elettronica. In più, con un controcanto si inserisce la bella voce di Kimbra, una pop star australiana, che “sceneggia” il testo, che è di una tristezza assoluta».
«Ciò che stupisce – continua Muto – è la semplicità con la quale il brano è stato confezionato: semplicità, non banalità. E la ricetta per arrivare a questi risultati è sempre misteriosa. Non ci sono manuali per le istruzioni che possano aiutare». Per quanto riguarda il testo, poi, Muto è deciso. «È ormai una moda: il testo è triste e parla di un amore che sta finendo, un amante che si allontana, “qualcuno che pensavi di conoscere”. Ha cominciato Adele e ora non c’è successo planetario che non canti amori finiti. C’è forse l’incapacità a raccontare storie felici, positive. Un tema, un grido, che un tempo era più presente nella produzione rock, ma che ora ha invaso anche il campo delle cosiddette “canzonette”. Forse i giovani di oggi, si riconoscono nelle storie che non durano: c’è un’assenza, che la musica, la canzone pop, tende a riempire con lo struggimento, lo squadernato cuore umano».
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