Come vasi di coccio

Di Gian Micalessin
28 Giugno 2007
Vengono eletti in Parlamento, gestiscono scuole e imprese. Eppure sopravvivere o fuggire è dilemma di ogni giorno tra i duemila cristiani di Gaza. Un ago nel pagliaio palestinese

Gaza

E adesso? Padre Manuel Musallam allarga le braccia. Come una anno fa. Come il prossimo. La Chiesa del Sacro Rosario è lì. La Madonnina è di nuovo in piedi. Tra fori di proiettili, calcinacci raccolti, pulizia ripristinata, dignità conservata. Solo la ferita è un po’ più ampia. Come le braccia di padre Musallam. Come la rassegnazione della sua anima. Compita, silenziosa, assuefatta. Era così un anno fa quando la furia vendicatrice per le vignette eretiche su Maometto si trasformò in minaccia. È così oggi dopo la caduta di Fatah, dopo la profanazione del convento e l’irruzione di quegli armati mascherati, pronti a distruggere e a sparare sui simboli sacri. Ora è passata. Quelli di Hamas hanno chiamato. Padre Manuel ha ricevuto le solite rassicurazioni. La sua vita, dice, non è in pericolo. Non almeno per programmata determinazione.
Non quella delle sorelle del Rosario, angeli silenziosi dell’unica scuola dove a Gaza sopravviva il significato della parola studiare. Ci passano i figli di tutti. I figli dei ricchi e dei poveri, dei musulmani di Fatah e degli integralisti di Hamas. Scuola unica dove la croce è simbolo di serietà, rigore, professionalità. Ci studiava Khaled il primogenito di Mahmoud Zahar, il capo dell’ala dura di Hamas. Khaled morì nel settembre 2003 dilaniato, a 19 anni, dalle bombe israeliane piovute sulla casa di famiglia. Mahmoud, il capo dei duri e puri di Gaza, e padre Manuel, il simbolo dei deboli di Gaza, non hanno mai smesso di vedersi, incontrarsi. Padre Manuel te lo racconta, allarga le braccia. Come dire nessuno ucciderà i cristiani di Gaza, nessuno verrà a farci fuori uno a uno, ma nessuno potrà neppure salvarci. Vasi di coccio tra vasi di ferro ti direbbe se fosse don Abbondio. Ma non lo è. «Se volete capire quel che succede a Gaza leggetevi le Lamentazioni di Geremia nella Bibbia- ripete il parroco dell’unica chiesa di rito Latino – capirete come si vive tra gente piangente e disperata, affamata e assetata». Una frase sola, un dito puntato contro tutti. Israele, Fatah, Hamas. Contro tutti i signori di una lotta che calpesta i più deboli, i meno arroganti, i più rispettosi. Tutti coloro che non hanno nulla da conquistare. Chi può soltanto sperare di sopravvivere o fuggire. I duemila cristiani di Gaza insomma. Rispettati da tutti, eletti in parlamento, ma protetti da nessuno. Un ago nell’immenso pagliaio di un milione e mezzo di palestinesi. Come i cristiani d’Iraq, come quelli di tutto il Medio Oriente.

La continua emorragia
Una fede che affonda lenta si spegne, si dissangua in un’inarrestabile fuga dall’orrore. La fuga dall’arena spietata e senza regole su cui lotta e sopravvive solo chi ha qualcosa da imporre. Fuggono da Gaza, fuggono dalla Cisgiordania. Tra Ramallah, Beit Jalla e Betlemme erano 35 mila nel 1997. Oggi sono poco più di ventimila. E l’emorragia continua, inarrestabile, insanabile. A Taibeh le 1.250 anime cristiane ci hanno fatto il callo. Le loro duecento case si svuotano poco a poco. Sopravvivono solo quei tre campanili con la croce cattolica, greca e ortodossa. E la fabbrica di birra della famiglia Khouri, l’unica di tutta la Cisgiordania. Kanan Khouri nel ’94 c’investì tutte le sostanze accumulate in trent’anni di esilio americano. Successo ed entusiasmo durarono fino al Duemila.
«Fino allo scoppio della seconda “intifada” la nostra birra andava in Cisgiordania, arrivava a Gaza, si vendeva benissimo in Israele e in Giordania. Da allora è il disastro – racconta Nadim, il figlio 45enne – in Cisgiordania, fatta eccezione per Gerusalemme e poche altre zone cristiane, la birra è ormai il simbolo del peccato. Come Gaza. Vendiamo 60 milioni di litri all’anno e questo significa che la birra Taibeh non si beve solo tra cristiani, ma la distribuzione è sempre più difficile».
Taibeh non è solo una birra. In arabo quel nome significa gentilezza. Prima era Ephaim il villaggio sperduto dove vissero Gesù e gli apostoli prima di scendere a Gerusalemme. A ribattezzarlo ci pensò Saladino, il conquistatore di Gerusalemme, stupito dalla cordialità dei suoi abitanti. «Saladino – sospira Maria, 35 anni, insegnante – non alzò neppure un dito contro Taibeh, ma oggi, stiamo veramente pensando di fuggire tutti». La grande paura iniziò nel settembre del 2005. Arrivò da Deir Jreer un villaggio dieci chilometri più in là. A Deir Jreer avevano appena sepolto Hiyam Ajai. Era la fidanzata di Mehdi Kouri uno dei tanti cugini della famiglia di birrai. Si erano conosciuti due anni prima. Poi una sera nella casa di Deir Jreer la famiglia di Hiyam aveva saputo. Lei aspettava un figlio. Ancora tre mesi e il frutto di quell’amore impossibile tra un cristiano e una musulmana sarebbe venuto alla luce. Finì tutto molto prima. Suo padre la colpì. Sua madre chiuse la porta. Giorni di liti a finestre chiuse. Fino a quando dalla casa di Deir Jreer, uscì il cadavere di Hiyam. Un corpo senza lesioni. Il cadavere di un’avvelenata. Ma da chi se da giorni nessuno la incontrava? «Quel cristiano l’ha violentata e lei s’è avvelenata», raccontarono, senza una lacrima, padre e madre. Deir Jreer chiese vendetta. Un sabato sera i più assatanati marciarono su Taibeh. Suleiman Khouri se li ricorda bene. «Avevano bastoni e taniche di kerosene. Cercavano mio cugino, il fidanzato di Hiyam. Volevano uccidere lui e la sua famiglia, ma erano già scappati. Bruciarono la sua casa, poi la mia e quella di altri dodici parenti».
In quel settembre 2005 Hamas non ha ancora vinto le elezioni, il fondamentalismo non è ancora al potere, ma Fatah e il suo governo non fanno nulla. «Le voci giravano da giorni si sapeva che volevano punirci, ma nessuno mosse un dito. I poliziotti arrivarono solo domenica mattina. Salvarono la fabbrica della birra. Il presidente Mahmoud Abbas ordinò un rapporto, ma come sempre – ricorda Suleiman – tutti restarono impuniti». Come nel 2002 intorno a Betlemme. Quella volta trovarono i cadaveri di due ragazze cristiane rapite, torturate e assassinate. Per l’autopsia prima dell’assalto erano vergini. La giustizia dell’Autorità palestinese liquidò tutto come la morte di due prostitute vittime di clienti troppo violenti. Stessa storia un anno dopo quando un’altra ragazza della stessa famiglia venne violentata da quattro miliziani di Fatah. «Qui la giustizia vale solo se te la puoi dare, se sei abbastanza forte da poterla imporre» sospira Suleiman. Allarga le braccia anche lui. Come padre Manuel. «Per questo noi cristiani non abbiamo scelta. Nessuno ci obbliga ad andare, ma nessuno muove un dito per consentirci di restare. E alla fine – credetemi – la fuga diventa quasi naturale».

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