Compagno Visco, perché hai finanziato i padroni e spremuto il popolo?

Di Luigi Amicone
19 Aprile 2001
Cinque punti di debito pubblico recuperati interamente grazie alla riduzione degli interessi (cioè non per merito del governo della finanza italiano, ma grazie alla politica monetaria Ue). In compenso abbiamo avuto più spese correnti, meno infrastrutturali e più entrate (cioè più Stato pesante e più tasse). Mentre uno studio di Mediobanca rivela le aliquote reali del prelievo fiscale in Italia all’epoca di Visco: 30,6% per la grande impresa, 70% per la piccola. Questo il bilancio finanziario di 5 anni d’Ulivo. Che per di più, al governo che uscirà dalle urne il 13 maggio, consegnerà un pacco di bombe ad orologeria (su sanità, previdenza, buchi per decine di migliaia di miliardi in Bilancio) destinate a scoppiare tra giugno e settembre. Chi ha coperto (e copre) tutto ciò? L’alleanza tra grande capitale e catto-comunismo statalista. Nel silenzio dei grandi media. Le prove schiaccianti del gangsterismo fiscale del centro-sinistra nei dati e analisi (su Irap e Dit) che offre in esclusiva a Tempi uno dei maggiori studiosi italiani della finanza pubblica. Intervista a Giuseppe Vitaletti a cura di Luigi Amicone

Vincenzo Visco, dopo Ezio Vanoni è uno dei ministri delle finanze che è durato più a lungo e che più di ogni altro ha avuto il potere di rimodellare quel settore cruciale del Paese che è il fisco. Si può tentare un bilancio d’insieme di questo quinquennio “vischiano” che metta in luce anche l’impostazione ideologica che emerge dalle politiche del ministro diessino?
Vi ringrazio perché vi siete assunti un compito che nessuno si è preso. L’informazione ha concentrato l’attenzione sui singoli elementi, ma non sui cardini dell’azione di fondo svolta in questi anni dal ministro delle Finanze. Ci sono tre grandi aspetti su cui concentrerei le nostre considerazioni: il primo riguarda il settore pubblico-economia privata, dove si tratta di verificare se è stata davvero mantenuta la promessa, fatta dall’Ulivo nel 1996, di uno stato più leggero; il secondo è il tema della politica strutturale in materia di piccola e grande impresa. Il terzo campo d’osservazione riguarda il federalismo, cioè del decentramento dei poteri e, soprattutto, del fisco.
Bene, da dove vogliamo cominciare professore?
Partirei da un dato che viene messo poco in evidenza: noi all’inizio del 2001 non abbiamo ancora sotto mano i dati economici del 2000. Il Pil del 2000 è stato reso noto con molto anticipo sul previsto, mentre l’insieme delle grandezze Pil, finanza pubblica e relative articolazioni, che di solito veniva pubblicato in questo periodo unitamente alla relazione generale sulla situazione economica del paese, stranamente tarda ad arrivare. Per i dati d’insieme dobbiamo perciò basarci su quelli relativi al quadriennio ’96-‘99. Ora, se si guarda alla finanza pubblica e all’economia privata analizzando le caratteristiche dello sbandierato risanamento, si vede che tra il 1996 e il 1999 l’aggiustamento della finanza pubblica è stato pari al 5,2%: cioè il deficit si è ridotto di 5,2% punti in termini di Pil. Attenzione però: ben il 4,6% (cioè il 90%) di questa riduzione è dovuta ad interessi. Non solo: se si guarda il versante spese primarie/entrate, che è il dato più significativo per valutare la promessa di uno stato più leggero, si vede che le spese primarie per consumi e investimenti sono aumentate di 0,5 punti di Pil, ovvero c’è stato un aumento del settore pubblico (specie sulle spese correnti) e le imposte sono cresciute ancora di più, cioè di 1,1. Ma è interessante notare che la tendenza generale in questo scorcio di anno 2001 è di un ulteriore calo degli interessi, di una crescita delle spese correnti e solo di un leggero calo delle imposte.
In conclusione?
Semplice: l’intero risanamento della finanza pubblica è dovuto alla riduzione degli interessi (riduzione che dipende dalla politica monetaria, dall’Europa e da molti altri fattori che non sono il governo della finanza pubblica), mentre il peso dello Stato sul mercato è cresciuto, sia sul fronte delle spese, sia su quello delle entrate, tra lo 0,5 e 1 punto di Pil, che non è moltissimo ma neppure poco. Punto primo: la promessa di alleggerire lo Stato non è stata mantenuta. Punto secondo: non solo non rileviamo alcun alleggerimento dello Stato, ma è avvenuto un certo appesantimento, per giunta con aumento delle spese che ha privilegiato quelle correnti anziché quelle infrastrutturali d’investimento. Queste non sono mie opinioni, sono i dati e le cifre del quadriennio ‘96-‘99 e le tendenze dell’ultimo biennio. Se si degneranno di farci sapere i dati sulla situazione economica del paese reale prima delle elezioni, credo che anche per il 2000 avremo la conferma matematica di quanto abbiamo osservato per i quattro anni precedenti.
Scusi la divagazione, ma un aspetto che non è ancora emerso è quanto il governo Amato abbia sbracato in sede di ultima finanziaria. E qualcuno dice, “sbracato a ragion veduta”, in modo da seminare sulla strada del prossimo esecutivo una serie di bombe ad orologeria destinate a scoppiare dopo il voto del 13 maggio. Pensiamo al moltiplicarsi delle tipologie di agevolazioni fiscali, all’abolizione dei ticket sanitari…
Lei sta accennando a un pericolo reale che non è solo legato a misure demagogiche come l’abolizione del ticket che fa esplodere la spesa sanitaria. Questo è solo un aspetto. Il problema preoccupante è l’evoluzione del 2001 e del 2002 della finanza pubblica…
Cosa vuol dire?
Voglio dire che nel campo previdenziale ci sono molte altre bombe nascoste di cui si parla meno…
Per esempio?
Per un decennio si è tenuta ferma l’indicizzazione delle pensioni. I sindacati che avevano i loro partiti al governo comprimevano non solo i salari, ma anche l’indicizzazione delle pensioni. Così ora i pensionati effettivi, che per dieci anni non si sono visti indicizzare le pensioni al tenore di vita, stanno premendo fortemente per recuperare l’impoverimento relativo della loro situazione. Tutto ciò esploderà a settembre prossimo col presumibile nuovo governo della Casa delle Libertà. Così pure la retribuzione dei dipendenti pubblici, i regali enormi che sono stati fatti con la Dual Income Tax (DIT), con conseguenze che si vedranno probabilmente già a giugno luglio. Si è innescata da una parte una logica elettoralistica di regalie – specialmente ad un certo mondo delle imprese – dall’altra di fine di una compressione artificiale sul versante della spesa pubblica che rischia di esplodere nei prossimi mesi. Non solo: nel campo della previdenza, mentre negli anni scorsi si sono in qualche modo irretiti i lavoratori a non andare in pensione per anzianità e prevedibile che ora si cominci a fare il contrario, cioè ad agitare lo spauracchio “Berlusconi che vi toglierà le pensioni di anzianità”. Così adesso c’è anche il rischio di una crescita esponenziale della richiesta di prepensionamento. Si è creato un rischio finanza pubblica che non si può sottovalutare. Alcuni – e sto parlando di ambienti vicini all’attuale presidenza del consiglio – stimano addirittura in 50-60mila miliardi il maggior differenziale di deficit pubblico rispetto al previsto. Il che significherebbe che il fabbisogno dello Stato anziché essere sui 20-30mila miliardi a fine 2001, potrebbe risultare sui 70-80mila miliardi! Una bella gatta da pelare (e le cui cause saranno da spiegare bene ai cittadini) per il probabile governo Berlusconi.
Passiamo al secondo punto: un bilancio della politica per l’impresa all’epoca dell’Ulivo
La promessa era stata quella di promuovere lo sviluppo riequilibrando le imposte per piccola, media e grande impresa. Qui c’è stato il fallimento più grave. Esiste un dato fondamentale che dimostra come, al contrario di tutte le promesse, sia stata fatta una frammentazione spaventosa del mondo dell’impresa. Un dato assolutamente affidabile, calcolato da Mediobanca, il quale ci dice che nel 1999 sulle medie e grandi imprese l’aliquota di prelievo sul reddito era pari al 30,6%; nel 1998, nei distretti del nordest, l’aliquota di prelievo sul reddito d’impresa era pari al 69,4% con tendenza all’aumento (quindi probabilmente nel 1999 sarà arrivata al 70%)!
Come si è arrivati a questa incredibile disparità di trattamento?
Le ragioni sono due: la grande riforma fiscale dell’Ulivo non è avvenuta nel settore delle imposte sui redditi da lavoro dipendente e, in genere, dell’Irpef, ove le manovre sono state del tutto marginali, la grande riforma è avvenuta nel settore delle tassazione dei redditi di impresa, sui due cardini dell’Irap e della DIT. Sull’Irap nessuno ha fatto un discorso specifico, ma il punto è che in Italia questa imposta va a colpire in maniera “raffinata” proprio le situazioni di decentramento, tipiche del tessuto produttivo italiano. Il sistema italiano è bello da studiare, perché anziché esser centrato sulla grande impresa che internalizza tutta la catena del valore, si è costruito sul modello dell’autsourcing, dell’esternalizzazione, dell’imprenditorialità diffusa, del contoterzismo. Prenda il caso dei terzisti, sono loro che animano il cuore industriale della piccola impresa italiana: e però hanno margini di reddito ridottissimi, perché sono compressi dai fornitori e da una concorrenza enorme. Si sarebbe dovuto usare un approccio impositivo più equilibrato, che riconoscesse il valore dell’efficienza di una realtà produttiva così vitale. Il proprio dell’Irap, rispetto all’Irpef o all’Irpeg, è che tassa non il reddito, ma il valore aggiunto, che grosso modo è il reddito più il costo del lavoro, più il costo del capitale, cioè gli interessi passivi. Se si calcola il gettito dell’Irap rispetto al reddito, è evidente che quanto più il valore aggiunto è elevato rispetto al reddito (per la presenza dei costi del lavoro e degli interessi) tanto più l’incidenza dell’Irap sul reddito è alta. Ora, il reddito dell’imprenditore terzista è bassissimo rispetto al valore aggiunto, perché ha tanti lavoratori dipendenti. E se ha un po’ di autonomia non può accedere al mercato azionario, quindi se si finanzia all’esterno ricorre al debito bancario. Questa è una parte della spiegazione del dato del 69,4%, perché nella piccola impresa l’Irap sul reddito incide pesantemente. Al contrario, nella grande impresa, specie quella con molti macchinari, quindi con molti ammortamenti esclusi dall’Irap, e con un indebitamento piuttosto basso, perché a latere sono state fatte politiche d’incentivazione del ricorso al mercato azionario o all’autofinanziamento, chiaramente l’aliquota dell’Irap del 4,25% tende ad essere quella effettiva sul reddito. Qui dunque la quota di prelievo sul valore aggiunto si avvicina a quella sul reddito e non è invece dieci volte tanto come accade nel caso delle piccole imprese. L’altra metà del cielo è la famigerata DIT (Dual Income Tax), che con la scusa di capitalizzare le imprese e allargare il mercato azionario, colpisce quel settore produttivo italiano caratterizzato dalla diffusione dell’imprenditoria. Di fatto il privilegio va a chi ha la possibilità di accedere al mercato azionario e soprattutto alle imprese vecchie, quelle che hanno tante partecipazioni in attivo, un particolare che nessuno mette mai in rilievo: la DIT non favorisce solo chi fa investimenti, ma anche chi avendo partecipazioni, specie vecchie, e le realizza, fa plusvalenze, le manda a capitale netto e ottiene l’abbassamento dell’aliquota fiscale. Un ulteriore effetto devastante della DIT è che agevola dentro il 7%, cioè trasforma il capitale netto in termini di reddito per il 7%, il che significa favorire le basse redditività. Il 7% inoltre è uguale per tutti, senza distinguere in funzione del rischio di impresa: non è affatto indicativo perché un’azienda sana, che si sviluppa, rende al lordo d’imposta, il 10, 12 o 15% sul capitale investito. La DIT, insomma, favorisce le imprese che rendono meno, che sono come al solito le grandi imprese, le “mummie”, quelle che comprano giornali, squadre sportive, eccetera. E questo spiega perché le grandi imprese finanziarizzate stanno al 30,6% di aliquota e quelle industriali al 69,4%. Non si dirà mai abbastanza del significato dirompente di questa differenza.
Per cambiare radicalmente questo sistema, Berlusconi potrebbe adottare un’aliquota unica e smettere di fare una politica industriale invasiva attraverso lo strumento fiscale. Il risultato paradossale sarebbe quello di aumentare il gettito. Però intanto arrivano addirittura moniti dell’Ue – forse per dare un po’ di fiato a Rutelli – che mettono in guardia i probabili nuovi inquilini di Palazzo Chigi dal ridurre la tassazione, quando poi in realtà, come ha ben dimostrato lei, nel comparto dell’impresa Visco stesso ha ridotto enormemente la tassazione per alcuni, aumentandola con incredibile squilibrio per altri. Cosa ne pensa di questa analisi?
Concordo pienamente. Anzi, farei alcune ipotesi su come procedere nella direzione che sta dicendo. Il dato deve essere sbattuto in faccia: 30,6 contro 69,4%. Anche il quotidiano La Repubblica deve prenderne atto! Qui si è fatta una frammentazione terrificante dove è difficilissimo perfino calcolare il range di imposizione in cui un’iniziativa produttiva andrà a cadere. Quindi c’è un’esigenza di razionalizzazione, ma razionalizzazione è termine troppo debole, di trasparenza, di senso comune elementare…
Ma poi professore, qualcuno avrà pur fatto anche confronti internazionali: questa Dual Income Tax dove la applicano?
In Svezia, perché nel Nord Europa c’è sempre stato un tentativo di attrarre capitali dal resto del mondo e quindi di procedere con la tassazione agevolata degli interessi: l’Inghilterra e anche la Svezia hanno sempre fatto questo tentativo e dal loro punto di vista scombina le logiche del sistema tributario, ma ha ancora un senso. In Italia la si è fatta dentro le imprese e con la spinta della Confindustria, non quella della gestione attuale, ma della precedente…
Però gli stranieri continuano a dire che non vogliono mettere capitale di rischio in Italia, loro finanziano le acquisizioni di aziende italiane con il debito, non gli interessa la DIT. Tanto le multinazionali, con la politica della localizzazione dei processi a maggior valore aggiunto nei paesi a minore fiscalità, lasciano in Italia solo aliquote marginali del loro profitto mondiale…
Appunto. Non so se lo vuole scrivere, ma le posso dire la verità su come è nata la Dual IncomeTax?
Sì, ci dica la verità…
Nel 1994 ero consigliere economico del ministro Tremonti alle Finanze. Bene, un giorno mi si presenta un tal signore della Confindustria, il quale mi fa questo ragionamento: i nostri profitti scontano un’imposta che supera il 50% (allora oltre all’Irpeg c’era l’Ilor), i Bot fruttano il 12%. Noi vogliamo ridurre le aliquote sul reddito d’impresa e un modo furbo per farlo è applicare alla quota di reddito che corrisponde all’interesse virtuale dal capitale netto investito l’aliquota dei redditi di capitale. Se noi abbiamo il capitale netto che è un investimento, applichiamogli un rendimento finanziario (che poi nella legge sulla DIT è diventato un 7%) e su questa parte del reddito ci mettiamo le aliquote finanziarie, che oggi sono al 19% cioè la media delle aliquote finanziarie. La proposta che mi fece quel signore mandato da Confindustria è diventata con Visco la DIT, con l’aggravante che ora anche chi realizza plusvalenze le può mandare a capitale netto e può incrementare il beneficio della DIT: è così stravolta la ratio dell’agevolazione DIT che intendeva favorire il sacrificio dell’imprenditore che rischiasse del proprio investendo danari del suo patrimonio o rinunciando a prelevare dall’impresa gli utili correnti.
Dunque, non soltanto imposte all’insegna della “non semplificazione”, ma “ aumento della complessità”. E così mai come oggi le imprese hanno possibilità di eludere legalmente il fisco. O no? È vero o non è vero che anche questa è un’agevolazione nascosta che favorisce le grandi aziende?
È vero. E questo è drammatico. Ci sono delle grosse imprese registrate da Mediobanca che in tutta questa confusione sono passate al 30,6% di aliquota: quelle hanno ricevuto un beneficio perché hanno realizzato plusvalenze che hanno utilizzato per godere della DIT e come Irap hanno pagato assai poco (dalle previsioni sull’Irap mancano 10-15mila miliardi: da chi sono mancati? Non certo dai terzisti…).
Come farà il nuovo governo a smontare questo sistema ingiusto e bizantino?
La DIT la smonti mettendola in concorrenza con la Tremonti: o scegli la DIT o scegli la Tremonti, e la DIT muore di morte naturale in due-tre anni. Quanto all’Irap – e ci introduciamo così al terzo punto di discussione – diciamo subito che appare distruttiva proprio dal punto di vista del federalismo fiscale. Un tentativo di salvataggio di questa imposta può essere fatto (visto che difficilmente si potrebbe abolirla) con il seguente approccio: l’Irap è già un’imposta sul valore aggiunto camuffata da imposta sui redditi (in maniera ignobile), prendiamone atto e diciamo: bene, io tasso il valore aggiunto passato, ma il valore aggiunto nuovo? Se uno si sviluppa, investe e assume, incrementando l’occupazione, i fattori di sviluppo vengono dedotti dalla base imponibile Irap. Tutto il valore aggiunto che c’è stato nel passato subisce la tassazione, la parte di crescita del valore aggiunto, cioè i fattori che fanno crescere il valore aggiunto, vengono detassati. In questo modo i connotati cambiano, in particolare rispetto al dato di fondo, che è poi il motivo per cui questa proposta nessuno ha voluto prenderla in considerazione, perché questa proposta agevolerebbe chi si sviluppa e chi aumenta l’occupazione, non chi la perde. Le grandi imprese sopra i 500 dipendenti, che perdono impiego al ritmo di 1-2% all’anno, non avrebbero benefici da una misura del genere e questo spiega perché non si è fatta. Così l’Irap diventerebbe meno odiosa, sarebbe l’imposta che agevola i fattori di sviluppo anziché tassare chi fa.
Sarà comunque una patata bollente, perché con l’Irap si sono ad esempio aboliti i contributi sanitari sul lavoro dipendente…
Sì, perché l’Irap nasce per affrontare il problema previdenziale: si diceva che la previdenza non poteva essere finanziata solo coi contributi sul lavoro, che poi ne appesantiscono il costo, e che in particolare la sanità, che è di tutti, non poteva essere finanziata coi contributi sanitari… Ecco perciò il delinearsi di un’imposta che riguardasse sempre la produzione ma a base più larga. Poi anche lì arriva la contrattazione sindacale: ma perché solo i contributi sanitari? Allora pure l’Ilor, la patrimoniale, la tassa sulla partita Iva… Alla fine i dati dicono che l’Irap oggi assorbe più delle vecchie imposte e penalizza chi ha tanto lavoro.
E così i sindacati sono andati contro l’interesse dei lavoratori…
Certo, per essere giusti, avrebbero dovuto inserire nella base imponibile Irap, il valore aggiunto, anche gli ammortamenti degli impianti e non solo il costo del lavoro e gli interessi passivi. Ma qui è emersa l’ideologia della sinistra marxista che si costituisce nella dialettica classista lavoro/capitale. Questa ideologia produce un modello semplificato e privilegia il rapporto con il grande capitale, ha il mito della grande macchina, della tecnologia. Li odia, ma ne subisce il fascino allo steso tempo. Per questo li favorisce con questa follia delle deducibilità degli ammortamenti dalla base Irap. Che è pura archeologia industriale, roba vecchia. Hanno voluto inserire anche gli ammortamenti, così almeno l’Irap colpisce sia il costo del lavoro, sia il costo del capitale, ma detrae il capitale addizionale e il lavoro addizionale. Qual è la logica di fondo che anima questa visione? Ripeto, per questa sinistra marxista: calzaturieri, terzisti, chi fa piccola impresa del Nord-est, cioè chi fa la competitività dell’Italia, non sono imprenditori, sono qualcosa di cui vergognarsi. È questa ideologia che, tradotta, diventa quella pratica che io chiamo “polpottismo fiscale”. Anziché prendere l’Italia che c’era, quella della piccola e media impresa, raddrizzare le cose che non andavano bene e sviluppare quello che c’era, Visco e le forze politiche e sindacali legate alla medesima concezione ideologica, hanno voluto creare l’uomo nuovo, il Pol Pot. Ecco quello che è successo: Pol Pot applicato alle imprese italiane.
Riprendiamo il tema del federalismo fiscale. A che punto siamo oggi in Italia?
Ho già detto che l’Irap nasce sul terreno previdenziale e che quindi trasferirla sul terreno delle autonomie locali non c’entrava assolutamente nulla. Logicamente l’Irap doveva restare sul terreno produttivo. Invece anche qui è intervenuta la nota ideologia: quando c’è una patata incandescente come in passato fu la patrimoniale, per nasconderla gli statalisti la passano agli enti locali. E così è successo. A livello pratico, gli stessi sindacalisti si sono resi conto della porcata assoluta che era stata fatta dal punto di vista del federalismo fiscale. Le do alcuni dati, anche questi insospettabili come quelli di Mediobanca: se uno analizza il gettito pro capite dell’Irap al Nord, al Centro e al Sud ebbene il gettito pro capite dell’Irap al Sud è di 4-5 volte inferiore a quello del Nord. L’ha documentato perfino Antonio Bassolino, in un dossier fatto circolare sei mesi fa. Certo, come li fanno a finanziare i servizi al sud con un gettito Irap così basso? Bene, sa come l’hanno tacitato Bassolino? Riempiendolo di trasferimenti pubblici. Conclusione: con l’Irap è stata scelta l’imposta più sperequata che esista. Una ricerca Uil dice invece che il gettito pro capite dell’imposta sulla benzina nel Sud è pari al 60% di quello del Nord, cioè è molto più perequata. Nel sud l’Irap produce un gettito fiscale tra il 20 e il 25% pro capite rispetto a quello che produce al Nord, la benzina e più in generale i consumi, il 60%. Ha capito che sperequazione?
Però bisogna pur scegliere un criterio generale di tassazione per tutto il Paese, non crede?
Ma tra i criteri bisogna scegliere quello che è il più uniforme: è una regola di buon senso, perché se uno sceglie un criterio che si distribuisce abbastanza bene poi non ha bisogno di innescare trasferimenti immani, come si è dovuto fare per l’Irap. Invece è stata fatta la scelta opposta: è stata scelta l’Irap perché è l’imposta sulle imprese che finanzia la sanità, laddove i cittadini vanno tutti all’ospedale, ma non certo le imprese, un caso di violenza generata dall’incoerenza. Inoltre è stato scelto un cespite che farà arrabbiare tutte le regioni italiane, perché adesso la Liguria comincia ad abbassare l’aliquota e poi qualche altra regione la seguirà, col rischio di innescare una spirale di caos a livello nazionale.
Scusi professore, ma se è così assurda la logica con cui i governi di centro-sinistra hanno impostato il problema del federalismo fiscale, che disegno c’è sotto? O dobbiamo pensare che hanno imboccato una strada incoerente per il gusto dell’incoerenza?
Tutte le teorie dicono che per realizzare il federalismo fiscale vanno scelte le imposte sui consumi. Perché se l’aliquota sui consumi è più alta in un posto non è che uno va a comprare gli spaghetti nella regione vicina. La logica di fondo della più incoerente delle vie possibili al federalismo fiscale? È molto semplice: per realizzare il federalismo fiscale con una logica di beneficio bisognava rinunciare al primato della politica statalista: l’Irap costringe a tanti trasferimenti dal Nord al Sud, costringe ad aggiustamenti specifici, quindi permette di conservare il monopolio dell’apparato pubblico a tutti i livelli.
E siamo al nodo che stanno evidenziando imprese e gruppi sociali importanti, penso ad esempio all’insistenza della Compagnia delle Opere di Giorgio Vittadini sulla necessità di una nuova concezione dello Stato, quindi all’enfasi data a non profit e bonus fiscale: cosa è stato fatto per realizzare quella sussidiarietà che finalmente ha assunto il valore di principio costituziuonale?
Nulla. Solo un po’ di caos con le detrazioni famigliari. È stata fatta la legge sulle Onlus che più che altro ha fatto arrabbiare i commercianti. Sono state prese alcune misure, ma male. Perché? Perché la logica di fondo dell’autonomia funzionale e dei corpi di governo intermedi, su cui ha insistito la Camera di commercio di Milano, non si è voluta portare avanti. Tanto è vero che nel federalismo fiscale che è passato costituzionalmente le autonomie funzionali sono state ignorate. E al “centro” stanno succedendo cose inenarrabili senza che nessuno ne parli…
Sotto il profilo fiscale, guardando in prospettiva del nuovo governo, qual è il minimo richiesto di provvedimenti per disarticolare questa concezione polpottiana dello Stato e restituire ai corpi sociali intermedi la possibilità di pensare al proprio destino, di pensare allo sviluppo del paese Italia non come l’ufficio romano di qualche burocrate…
Detto per inciso: l’Irap ha tanti demeriti, però se uno vuole misurare l’evasione quello è il valore aggiunto e lo confronta subito con le grandezze analoghe di contabilità nazionale. Questo ragionamento elementare è scomparso nei quattro uffici studi del ministero delle finanze, ma io ho provato a farlo e paradossalmente risulta che l’evasione più massiccia è nelle regioni che hanno una certa particolarità politica…
In quali regioni è più massiccia l’evasione fiscale?
Siccome è un dato che andrebbe approfondito, non glielo dico.
E allora proseguiamo, le prospettive?
E comunque, in prospettiva, per cambiare il sistema bisogna in primo luogo fare tabula rasa di questa ideologia polpottiana che ha animato la riforma cosiddetta della “tassazione sui redditi da impresa”, e aggiungo io il federalismo fiscale. In secondo luogo istituire un meccanismo di collegamento tra imposizione e beneficio, tra tasse e spesa pubblica, saltando il più possibile l’intermediazione centralista. Bisogna dare risalto, nella nuova legge costituzionale sul federalismo fiscale, alle autonomie funzionali, oltre che alla camera delle regioni. Valorizzare le imposte sui consumi rispetto a quelle sul reddito. Semplificare e tendenzialmente uniformare l’aliquota sui redditi d’impresa abolendo anche la Visco e la DIT.
In questi anni ci sono stati anche episodi secondari che però sono indicativi: tutta la vicenda delle cartelle pazze con cui hanno fatto pezzi di bilancio dello Stato per migliaia di miliardi. Altra cosa che andrebbe approfondita è la riforma delle sanzioni tributarie: un altro capolavoro di logica polpottiana. Perché avere trasformato una sanzione civile che operava nell’ambito della logica del danno (tu hai fatto un danno allo Stato traendone beneficio, quindi lo devi risarcire) in una sanzione di tipo penale, dove lo Stato dice che anche se tu, autore, non hai ottenuto beneficio dall’evasione, io Stato ti commino la sanzione. È una logica devastante come impostazione. Anche perché, fra l’altro, crea delle fratture interne nei rapporti di produzione, nei rapporti datore di lavoro-dipendente, amministratore-società, società-consulente, relazioni che devono essere per forza fiduciarie e dove ora s’incunea lo stato per dire “attento, perché se tu non fai il secondino a mio vantaggio io punisco te, non il beneficiario”.
È il soviet. Dopo c’è la spia interna. Quando proveremo che hanno messo le cartelle pazze tra le voci di entrata dovrà essere un atto di accusa, un momento di denuncia che colpirà l’opinione pubblica. Multa al consumatore se non ha lo scontrino, multa al dirigente se non denuncia l’evasione, fa parte di una logica paurosa: che la “grande stampa” sia arrivata a coprire queste vergogne sinceramente mi fa paura. E “grande stampa” lo dico tra molte virgolette. Ma che i padroni della grande stampa, i grandi industriali italiani, fingano di non vedere queste cose continuando ad appoggiare questo sistema, che i grandi finanzieri siano i registi del soviet del Pol Pot italiano è paradossale dal punto di vista storico.

CHI E’ GIUSEPPE VITALETTI
Professore associato di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario all’Università di Macerata, è uno dei maggiori esperti italiani di fiscalità e previdenza pubblica. Ha scritto numerosi libri editi da Mondadori, Franco Angeli e Il Mulino. Con Giulio Tremonti ha firmato il volume più aggiornato in materia di “federalismo fiscale”, che è anche il titolo del volume edito da Laterza.

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