Compasso e bazello, chianina e brunello

Di Pietro Piccinini
03 Giugno 2004
Toscana e Umbria, due paradisi a regime statalista. Tra resistenza artigiana e imprese in estinzione

Maggio avanzato. Sole bello convinto, di nuvole neanche il concetto. Il viaggio in Italia alla ricerca di scampoli della ripartenza nazionale comincia bene. Anche perché la prima tappa ci porta tra le curve più amene del mondo, quelle che s’insinuano fra i colli di velluto verde dell’Umbria e della Toscana. Passato quello stillicidio di acido sui nervi che è la Bologna-Firenze, eccola lì, la culla del Rinascimento.
Qui in Toscana dal Dopoguerra il governo della cosa pubblica è appannaggio dei campioni della sinistra e gli sfidanti perdono sempre. Come nel 2000, quando alla guida della Regione i Ds organizzarono la successione del diessino Claudio Martini al diessino Vannino Chiti. E il toscano medio, abituato a bistecche e Chianti, s’è ritovato per governatore un ex assessore alla Sanità che, prima di rivelarsi un grande papà dei ragazzi del Social Forum di Firenze, dichiarava di provare il piacere della massaia che si sveglia alle 6 del mattino, fa yoga, mangia uno yogurt e poi si mette a stirare. «Non c’è mai stata per la Toscana una stagione peggiore di questa», dice un esponente autorevole dell’opposizione. «Tant’è che in Regione, delle proposte di democrazia partecipata annunciate dopo il Social Forum (bilanci e consigli di quartiere aperti a tutti, voto ai sedicenni, consiglio degli stranieri, ecc..) non è rimasto niente se non, unico caso in Italia, l’abolizione del sistema delle preferenze nelle elezioni regionali. Come lo vogliamo chiamare questo metodo di potere che per salvare le poltrone e nascondere una politica allo yogurt, Forum sociali e coppie gay, si assicura un sistema elettorale in cui sono le cupole di partito che decidono la rappresentanza politica? Si ritorna al vecchio Pci, che non permetteva ai candidati nemmeno di stamparsi i propri volantini senza il consenso del comitato centrale».
Probabilmente può succedere solo a Firenze che dei ragazzi assunti con un contratto a tempo determinato, licenziati come merce di scambio in una vertenza tra aeroporto e sindacato, aiutati da un giovane consigliere comunale non soltanto a riottenere il posto di lavoro, ma anche l’assunzione a tempo indeterminato, una volta saputo che il loro amico consigliere si sarebbe ricandidato in Forza Italia, lo ringrazino con un candido: «Berlusconi? Peccato. Non posso votare per te».

IL 3% DEI FIORENTINI CANDIDATI AL COMUNE
Ma per capire il motivo dei borbottii fiorentini, conviene farsi due passi sul Lungarno e per le stradine del centro che, imperversi la bufera o faccia caldo torrido, brulicano di turisti. Gli italiani però, a occhio, scarseggiano. «Scusi, per piazza Ognissanti?». Non ce n’è uno che non parli anche bene l’italiano, ma con marcato accento americano, inglese, tedesco, marocchino. Scusate, ma i fiorentini dove sono finiti? «Ne perdiamo 10mila l’anno», dice il capo gruppo comunale di “Azione per Firenze” Gabriele Toccafondi «perché in questa città la vita è diventata molto complicata per le famiglie normali». Per esempio? «Per esempio i servizi e gli esercizi commerciali sono ormai tutti calibrati sui turisti e fanno prezzi improponibili per le famiglie. E poi non ci sono parcheggi, si rischia la multa anche solo per andare a far spesa. Così i fiorentini si trasferiscono nelle periferie e vendono o affittano casa agli stranieri. Grazie al centrosinistra oggi Firenze è una città che vive di rendita sul turismo, ogni altra impresa è condannata ad emigrare insieme ai fiorentini». Beh, ci vivessero di una simile rendita le altre città italiane…
«Non ci siamo capiti. Quando dico “rendita” dico qualcosa di molto simile al parassitismo. Chiaro che Firenze deve valorizzare al massimo i suoi fantastici beni culturali. Ma una cosa è valorizzare, un’altra è, ad esempio, imporre 190 euro di ticket ad ogni pullman, una media di 15 euro a turista, solo per mettere piede a Firenze. Qui il tessuto economico-imprenditoriale è stato raso al suolo: Fondiaria è stata venduta, Nuovo Pignone venduta, Gucci è all’estero, Ataf è francese, la Banca Toscana è alla senese Mps, la Cassa di Risparmio di Firenze al gruppo San Paolo, l’aeroporto è stato venduto (anzi svenduto a 11 euro ad azione anziché a 14, valore del titolo in Borsa) a Benetton… vuole che continui?». Per carità. Beh, la babele delle 29 liste alle comunali comincia ad avere una spiegazione… «Che la gente non ne può più ormai è chiaro: all’apertura della campagna elettorale di Domenici, in un palazzetto che tiene 2.500 persone, erano in 300». Una cosa è sicura: anche se il sindaco uscente verrà trombato, non vincerà sicuramente il centrodestra, e lo scontro più duro sarà tra Bertinotti e Diliberto.

I CARRAI IL Tè E LA CINA
Eppure anche a Firenze esistono esempi di un “altro mondo possibile”, anche in Toscana.
In piazza Ghiberti, tra i rumori e gli odori del mercato coperto di Sant’Ambrogio, c’è, un locale non appariscente ma originale, intorno al quale si svolge la storia di un’azienda a conduzione famigliare, “La via del tè”, che oggi distribuisce, tra foglie di tè, miscele e oggettistica per l’infusione e la degustazione, 1.200 prodotti in Italia e all’estero. Insomma, un esempio del famoso made in Italy artigiano che resiste all’invasione pechinese e dà ancora filo da torcere ai grandi competitor europei. «La passione di mio padre per il tè – spiega Paolo Carrai, che della società cura l’aspetto commerciale – deriva da quella per il Chianti, perché il tè, come il vino, può assumere sfumature di sapore diversissime tra loro e bisogna essere esperti per poterle gustare davvero». Così, nel 1961, Alfredo Carrai ha cominciato ad importare tè in Italia per Lyons. Poi, negli anni Settanta, al mercato americano di Camp Darby, i Carrai hanno scoperto il tè cinese e, quando ancora ci voleva un anno per ottenere un visto per la Cina, è andato direttamente a Pechino ad aprire un suo canale di importazione. Trentacinque anni dopo, l’azienda ha una ventina di dipendenti e due show-room (a Firenze e a Verona) in cui far conoscere a clienti finali e addetti ai lavori 350 diversi tipi di tè. «Importiamo soprattutto per la grande distribuzione, ma anche per molti caffè storici d’Italia, per le sale da tè, per i bar… Siccome in Italia non esiste la tradizione del tè, facciamo anche formazione per i venditori». Fedeltà alla passione che ha dato vita all’azienda, valorizzazione delle persone e attenzione a reinventare il prodotto puntando sempre sulla qualità sono le caratteristiche che hanno reso forte impresa. «Ma anche la capacità di creare rapporti per contrastare una cultura regionale piuttosto statalista, in cui di solito si lavora più per rendere politicamente forte la categoria che per far crescere i singoli. Come quando l’Arpat regionale ci voleva ingiustamente appioppare una penale per il mercurio riscontrato in alcuni nostri campioni. Alla fine abbiamo avuto ragione noi, però abbiamo dovuto combattere a lungo e farci dei buoni alleati, altrimenti avrebbe prevalso il burocratismo di un sistema inerte».

LA CRISI DI PRATO
Prato invece è una città normale. Ci si può addirittura accomodare su una delle panchine nei giardinetti intorno al castello senza finire per forza immortalati come parte del panorama da qualche giapponese. «Questo è il motore economico della Toscana. Per 30 anni il distretto dei filati è cresciuto costantemente, mentre crollavano quello siderurgico e quello chimico». Simone Angiolini, pratese 37enne, nel 2002 ha dato vita con un socio a Bel & Co, per la filatura lana leggera, in sinergia con un gruppo che già produceva tessuti più pesanti e desiderava allargare l’offerta. Bel & Co, come molte altre aziende del pratese, vende gran parte del prodotto all’estero, specialmente negli Usa. Insomma, se la cava bene. Nel frattempo però il distretto di Prato è entrato in una crisi senza precedenti. Dieci anni fa, dopo il boom che ha portato la città ad espandersi fino a venire classificata tra le prime 20 d’Italia con i suoi 220mila abitanti (nell’immediato Dopoguerra ne aveva 49mila), le aziende nell’area di Prato erano 28mila. Oggi sono 9mila. Se la ride, ma non troppo, il nostro Angiolini: «Se i cinesi tra 2 anni cominciano a produrre i miei tessuti di lana leggera a 3 dollari in meno, andrà malissimo». In Cina la produzione costa la metà, d’accordo, ma è la qualità che rende imbattibile il made in Italy. «Questo è vero, ma non vale per tutti. I tessuti di lana sono del mercato di massa, sono un semilavorato senza branding, quindi il costo della produzione è determinante, perché la qualità tutto sommato è imitabile. Bisognerebbe delocalizzare: andare a produrre dove i costi sono bassi ma con la creatività italiana. Solo che, a Prato, chi ha fatto i soldi pensa che “cacio vinto non si rigioca”, mentre il resto delle imprese non ha capitale sufficiente per investire all’estero. E né la politica né la finanza hanno ancora affrontato il problema. Gli stranieri ci stanno uccidendo, esattamente come i pratesi in passato sbaragliarono la concorrenza degli inglesi».

LA RISERVA DI PERUGIA
La speranza di reperire uno scorcio di società in ripresa nelle roccaforti del comunismo italiano si riduce a zero una volta raggiunta l’acropoli di Perugia. Dal parcheggio di piazza Partigiani si sale, a bordo delle scale mobili, fino nei sotterranei della Rocca Paolina, un intero quartiere della città medievale sotterrato dalla fortezza cinquecentesca, le cui abitazioni, strade, piazze sono tuttora pienamente riconoscibili grazie alle luci giallastre da documentario integrate nella struttura. In cima al colle, corso Vannucci srotola alla vista un centro storico sensibilmente diverso da quelli delle altre città umbre e toscane, affascinante, quasi ostile. «L’Umbria – confida il nostro indigeno di riferimento – è la riserva indiana dei comunisti. Qui il centrosinistra ha gioco facile perché lo statalismo è il sottofondo culturale di tutto: il concetto dello Stato buono e del privato ladro che cerca di appropriarsi dei beni di tutti aleggia un po’ in ogni ambiente. Come potrebbe essere altrimenti, in una regione con 800mila abitanti in cui la maggior parte dei lavoratori attivi è impiegata in aziende pubbliche? In Umbria “il partito” può operare un controllo capillare del territorio come in nessuna altra regione in Italia, anche perché non c’è una rete imprenditoriale forte come altrove e quindi quasi tutto può essere politicizzato. Sotto elezioni capita ancora che un dirigente di un ente pubblico chiami uno ad uno i sottoposti per consigliare loro il voto. Qui la politica pensa solo ad autoconservarsi, costruendo centri commerciali ovunque. Invece di pensare a creare una rete seria di privati intraprendenti, quelli pensano solo a mettere le telecamere a sorvegliare il centro. Così, quando il turista si vede recapitare a casa una bella multa da Perugia, vedrai come ci torna contento qui…».

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