L’agricoltore ha le sue grane: così burocrazia italiana e istituzioni europee ostacolano un settore che cresce

Di Matteo Rigamonti
07 Luglio 2013
Centotrentacinque giorni l'anno per comunicare con gli enti. Margini ridotti, tasse e concorrenza dei paesi extra Ue. Lavorare la terra non è l'unico aspetto duro del mestiere

«Boom di assunzioni nell’agricoltura» ed «esportazioni da record per l’agroalimentare» italiano, titolavano in questi giorni i principali quotidiani nazionali. Ma è davvero così? E l’agricoltura ci salverà del baratro? Per scoprire la reale condizioni in cui operano gli imprenditori agricoli del paese, andando oltre i facili luoghi comuni che un po’ romanticamente leggono il «ritorno ai campi» come un nuovo “El Dorado” per un’economia ormai asfittica e in crisi, tempi.it ha chiesto direttamente a due giovani che da tempo sui campi ci lavorano di raccontare la loro esperienza.

I MARGINI SE LI PAPPA LA GDO. «Sicuramente c’è vitalità nel comparto e l’agroalimentare, che è uno dei pochi settori con il segno positivo, sta tenendo sui mercati quando non addirittura implementando i suoi ritmi di crescita», esordisce Stefano Lamberti imprenditore agricolo del riso nel pavese e presidente dei giovani lombardi di Confagricoltura. Ma c’è una precisazione che occorre fare: «Un conto, infatti, sono quelle produzioni di nicchia dal forte valore aggiunto per cui l’export è indubbiamente un potente volano e che stanno andando bene, ma che rappresentano una quota estremamente ristretta sul pil del settore». Altra cosa, invece, sono «le produzioni come quelle dei cereali, il riso o l’allevamento per cui tutto questo valore aggiunto non c’è». Vendendo alla grande distribuzione organizzata, «che gode di margini di remunerazione del 50 per cento», infatti, «a chi come me lavora con queste produzioni non resta che il 10/15 per cento massimo di margine».

COSTI TROPPO ELEVATI. E lavorando con un sì risicato margine di guadagno non mancano certo le difficoltà. «Tra costi di produzione, energetici, del fattore terra e della manodopera e una pressione fiscale senza eguali – prosegue Lamberti – è difficile barcamenarsi». In particolare in Italia «soffriamo la concorrenza dei paesi extra Ue dove il costo del lavoro è minore» e anche quella di «alcuni produttori dell’Unione europea, come la Francia, dove a rappresentare un notevole vantaggio competitivo sono i costi energetici nettamente inferiori». Oltretutto ci sono anche «norme europee particolarmente penalizzanti perché molto spesso alcuni prodotti sono utilizzati dai governi come merce di scambio per negoziare più ampi accordi commerciali».

135 GIORNI PER RISPONDERE ALLA BUROCRAZIA. A condividere le medesime difficoltà in un settore che certo non si può definire in crisi è Francesca Picasso, vice presidente nazionale dei giovani di Confagricoltura e imprenditrice del biogas nella bassa cremonese. «La produzione cresce, nonostante i consumi interni stiano calando – dice Picasso – e questo è dovuto all’aumento delle esportazioni verso paesi soprattutto extraeuropei. Si tratta di una circostanza molto positiva aiuta il settore ad assorbire occupazione» che altrimenti non riuscirebbe.
Picasso, inoltre, denuncia un ulteriore problema che assilla tanto gli agricoltori quanto chi lavora col biogas come anche gli allevatori: «Per tutti noi, ma in particolar modo per chi lavora a prodotti destinati all’alimentazione umana, i controlli richiesti sono molteplici e questo è giusto, ci mancherebbe. Ma lo Stato non può chiederci di rispondere a miriadi di enti che ci chiedono tutti quanti le stesse informazioni: dall’Asl all’Arpa passando per la Provincia. Dal mio punto di vista sarebbe molto meglio se almeno enti e istituzioni dialogassero tra di loro. Invece, recentemente, è stato calcolato che un imprenditore agricolo spenda 135 giorni in media l’anno per il disbrigo di pratiche burocratiche».

@rigaz1

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