Questa crisi ha almeno trent’anni. E non la risolverà un salvatore della patria

Di Matteo Forte
25 Luglio 2022
Per capire il fallimento del governo Draghi e l’immobilismo che regna bisogna risalire al trionfo dell’antipolitica. Occorre rifare la politica, non basta affidarsi ai “migliori”
Mario Draghi e Sergio Mattarella
Mario Draghi al Quirinale da Sergio Mattarella il 21 luglio scorso (foto Ansa)

Tratto dal profilo Facebook di Matteo Forte – Che cosa è successo questa settimana? Potremmo dire che il M5s non ha accettato la realizzazione di un termovalorizzatore a Roma infilata nel “Decreto aiuti” del governo di cui faceva parte. Potremmo dire che un’improvvida frase di un presidente del Consiglio impolitico («Gli italiani ci chiedono di andare avanti») ha provocato la reazione di chi i voti per rappresentare i cittadini li ha chiesti e ottenuti, per quanto finora si sia accontentato di giocare sui social. Potremmo dire tante altre cose, ma non tutte le analisi – per quanto dettagliate e complesse – potrebbero spiegare esaustivamente quello che è successo.

Per capire che cosa è successo e comprendere l’Italia di oggi, dobbiamo fare un balzo indietro di almeno trent’anni, al 1992, all’annus horribilis della nostra storia. Lì finisce la Prima Repubblica, ma non ne nascerà mai veramente una Seconda. Il cambio dopo quasi cinquant’anni della legge elettorale, che porterà il nome di quello che oggi è diventato capo dello Stato (il “Mattarellum”), ha condotto a un sistema bipolare. Ma lo ha fatto mantenendo inalterata la forma parlamentare di governo, con il risultato di aver illuso i cittadini, facendo loro credere che avrebbero scelto direttamente col voto maggioranza e capo di governo.

Contemporaneamente una parte della magistratura smantellava i partiti che, nel bene e nel male, avevano garantito la libertà e la democrazia all’Italia. E lo facevano con il plauso di altri nuovi e vecchi partiti, speranzosi di lucrare posizioni di potere, e con l’approvazione di media e di gruppi editoriali e industriali che di quel “sistema malato” erano indiscussi co-protagonisti. Nasce, e si alimenta di veri o presunti scandali, l’antipolitica. Si distruggono i partiti e gloriose tradizioni politiche, ma crescono personaggi che, sventolando il cappio nell’aula di Montecitorio o gridando “onestà-tà-tà”, occupano sempre di più posizioni di rappresentanza e potere.

A parte il ciclico scontro tra il Professore e il Cavaliere, tra Prodi e Berlusconi (con coalizioni che tenevano insieme tutto e il contrario di tutto pur di superare di un voto l’avversario), la storia degli ultimi anni vede una costante crescita di quella che già Cossiga definì come la “demagogia contro il potere”. “Politica” è diventato così sinonimo di “corruzione” e “malaffare” e mano a mano gli improvvisati apparivano come i soli abilitati a rappresentare gli elettori.

L’immobilismo e la paralisi hanno finito per farla da padrone. Le corti di giustizia si sono sentite in dovere di sostituire i Parlamenti nel “legiferare” sui cosiddetti nuovi diritti e la “giudiziarizzazione” corrode tuttora da dentro la vita democratica della nazione.

Entrano in scena allora i “tecnici”, descritti come “salvatori della patria”. Iniziammo col governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, e finiamo con l’ex governatore della Bce. Oggi ci accorgiamo che, per quanto competenti e riconosciuti a livello internazionale, i salvatori della patria da soli non bastano. Hanno fatto tanto, forse tutto quello che potevano fare (pensiamo al “bazooka” di liquidità che nel 2012 ha realmente salvato le nostre finanze). Eppure, nell’assenza ormai trentennale di una classe politica degna di questo nome, anche le migliori competenze di cui disponiamo non possono governare una società sempre più complessa come quella di inizio XXI secolo. Perché non bastano i competenti.

C’è bisogno di una diffusa esperienza politica (e la necessità di una soluzione diplomatica della guerra alle porte d’Europa lo ricorda insistentemente ogni giorno!), in cui possano maturare anche competenze specifiche. Ma per fare tutto ciò occorre ricostruire i partiti, formare una nuova classe dirigente, trovare un’adeguata modalità di selezione – mentre oggi a livello nazionale si viene nominati, spesso con il favore dei capibastone, contrariamente a quanti a livello locale ancora si spaccano la schiena per raccogliere le preferenze.

È quanto mai vero e urgente l’appello che Benedetto XVI lanciò nel 2008 a Cagliari, quando segnalò la «necessità di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morali soluzioni di sviluppo sostenibile».

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