
Dalla X alla Y (Generation)
Dopo il censimento dello scorso anno, si continua a discutere della nuova identità americana. Negli Stati Uniti, il potere l’hanno i cosiddetti baby-boomer (nati subito dopo la seconda guerra mondiale), quelli noti per essersi evoluti da hippie a yuppie. Segue la “Generazione X”, i disorientati, da cui è sorto il “Bobo”, il borghese bohemien dei potenti che ce l’hanno con il potere. E da ultimo la “Generazione Y” (1-25 anni), che è la prima davvero “multietnica”. Eccone il profilo: chi ha meno di 18 anni, ha buone probabilità di non essere bianco e il doppio di appartenere a più di una razza (nel 1972 — al culmine del baby-boom —,l’80% degli alunni delle scuole medie inferiori e superiori, 5-17 anni, era composto di bianchi di origine non ispanica; nel 1999, si è scesi al 63%). Di fatto, più l’età del gruppo è bassa e più diversificata ne è la composizione etnica e razziale. L’elemento davvero significativo di questo gruppo, infatti, è che i suoi membri trovano assolutamente normale, anzi desiderabile, essere parte di tale multiformità. La generazione Y è immune dal tentativo di negare le proprie origini etniche o razziali che è stato invece tipico delle precedenti ondate d’immigrati bianchi non anglosassoni. Essa considera “tosto” essere “etnici” e un numero sempre maggiore di ragazzini della classe media bianca americana è d’accordo con loro. La musica popolare lo dimostra bene: è la prima volta che un rapper come Eminem o una cantante ispanica come Cristina Aguilera prendono parte al più prestigioso premio musicale, i Grammy, osannati da un pubblico di bianchi, neri e etnici. Il numero delle coppiette razzialmente miste è in crescita: un sondaggio del 1997 mostra che il 57% degli adolescenti ha un partner di razza diversa dalla propria e un altro 30% afferma di non vedere in questo alcunché di sbagliato. Peraltro, è la pubblicità a dare il vero polso della situazione, capace com’è di anticipare e accelerare i trend. La Generazione Y spende 155 miliardi di dollari l’anno per varie “necessità da teenager” e oggi le agenzie creano annunci pubblicitari multietnici e multirazziali. A una recente iniziativa politica che in California mirava a eliminare il bilinguismo nelle scuole si sono opposte con successo le maggiori compagnie di cibo e di prodotti d’intrattenimento che vendono agli ispanofoni in spagnolo. Siamo davvero lontani da West Side Story. Il sogno americano del trionfo dell’identità e del merito individuali sembra essere finito, se non altro nell’ambito delle origini razziali e culturali, nella misura in cui una persona può essere definita un consumatore. Ma anche negli Stati Uniti non si vive di solo pane (o di fast food, soft drink, CD e pantaloni trasandati portati sopra della costossima biancheria). Il vero crogiuolo razziale deve essere riscaldato da ben altro che non la sola pubblicità. Deve fondarsi sull’esperienza dell’appartenenza. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa la nostra Generazione Y.
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