De civitate d’ America

Di Lorenzo Albacete
27 Settembre 2001
Un tempo, se dicevi di essere di New York, potevi star certo che chi abitava in qualsiasi altro luogo degli Stati Uniti avrebbe detto che eri in qualche modo diverso, fuori dalla “norma”. E venivi guardato con curiosità o palese sdegno.

Un tempo, se dicevi di essere di New York, potevi star certo che chi abitava in qualsiasi altro luogo degli Stati Uniti avrebbe detto che eri in qualche modo diverso, fuori dalla “norma”. E venivi guardato con curiosità o palese sdegno. Oggi, dopo la tragedia dell’11 settembre, è cambiato tutto. Se sei di New York la gente ti tratta con gentilezza strana e addirittura con tenerezza, come se gli spiacesse per te. Per un newyorkese è persino fastidioso. Com’è fastidiosa anche tutta quest’unità patriottica che ci sta intorno. Il fatto che il presidente sia intervenuto a una seduta del Congresso svolta a Camere riunite, ha dato l’impressione che gli americani nutrano tutti la stessa opinione circa la risposta agli attacchi terroristici. Il livello di consenso popolare di cui Bush gode oggi è virtualmente senza precedenti ed è assolutamente sbalorditiva per un uomo che ha vinto le elezioni in modo così controverso. Il governatore dello Stato di New York e il sindaco della Grande Mela sono stati praticamente canonizzati dalla gente. Nei negozi è difficile trovare bandiere americane perché sventolano in tutti le automobili e in tutte le case. La “lingua ufficiale” delle dichiarazioni di natura politica o diplomatica, dà l’impressione che gli Stati Uniti si stiano preparando a liberare il mondo da ogni male. Proprio questo, del resto, è ciò che dovrebbe tenere presente chi s’interessa di cose americane: ciò che tiene unito questo Paese è esattamente il richiamo alla sua bontà primigenia e alla sua innocenza mitica. I capi politici, però, la sanno più lunga. Non si faranno guidare da un entusiasmo di natura morale, ma da una valutazione realistica di ciò che è possibile fare. La tendenza americana a formulare i propri interessi con linguaggio religioso ha lasciato attonito più di un mio amico, timoroso che gli Stati Uniti stiano per lanciare una guerra religiosa. Gli ho ricordato l’insegnamento agostiniano: appellarsi alle potenze mondane mediante il richiamo a ideali di tutti i tipi per ottenere la mobilitazione dei popoli da loro governati. Benché fosse assolutamente convinto della complicità dei governi con molti dei mali da essi stessi denunciati, sant’Agostino nutriva una certa “simpatia” per quel tipo di argomentazione. Come se vi vedesse la riprova di una sorta di “fede umana”, di “umana speranza” e di “amore umano” capaci di evidenziare lo struggimento dell’uomo per ciò che solamente la fede reale può dare, destinato a rimanere su un piano puramente umano per il fatto che mai le nazioni del mondo sono guidate dalla fede reale. Benché sia un atto umano contrassegnato dal peccato, e non vada celato sotto panni idealistici, la guerra può essere espressione di una fede, di una speranza e di un amore che possono pure essere a loro volta ispiratori, ancorché completamente differenti (Agostino usa il termine diversa), della fede, della speranza e dell’amore cristiani (cfr. De civitate Dei, II, 2). Le virtù della città dell’uomo ideale, diceva sant’Agostino, sono, per certi versi, simili alle nostre (cfr. ibid., V, 17, 2). Gli americani potranno pure parlare come se fossero gli agenti della Giustizia, ma sotto sotto sappiamo che l’uomo ha sempre bisogno della misericordia di Dio.

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