Democratico o no, il partito della sinistra ha un cuore comunista e antioccidentale

La discussione su chi abbia diritto a sedere nel Pantheon del futuro Partito democratico ha prodotto una situazione imbarazzante. Come mettere accanto le foto di Craxi e di Berlinguer senza che si guardino in cagnesco? E come scegliere come nume tutelare colui che voleva superare la società borghese in nome di una oscura “terza via” tra capitalismo e socialismo reale? A questo punto pare che i muri del futuro partito siano destinati a restare nudi. Ma questa non sarebbe una soluzione, bensì la rappresentazione dell’impossibilità di raggiungere un giudizio condiviso sul passato. E quindi di avere idee comuni circa il presente. Difatti, messe da parte le foto, nascono altri problemi. Dai resoconti dei congressi nelle sezioni dei Ds si leva un grido di dolore: «Saremo compagni dentro il Pd? Lo saremo come lo eravamo? Potremo chiamare “compagno” un ex democristiano della Margherita? No, cari compagni, sapete bene che non potete farlo. E allora, se non posso chiamare compagno uno del mio partito, io lo sono ancora?».
Pare che Fassino e D’Alema siano favorevoli a conservare l’uso dell’appellativo ma non rispondono alle tormentose domande di cui sopra. Di certo hanno presente che la questione in gioco è sempre l’assoluta necessità di preservare il nocciolo duro dell’identità comunista. Nel sito web di D’Alema si può leggere un recente intervento all’assemblea dei segretari di sezione dei Ds: «Vedete, io vengo dalla storia di quel partito per il quale il peso di chiamarsi “comunista” qualche volta era talmente forte, che nella pratica ci si poteva permettere di essere conservatore o anche moderato. Sono ben consapevole che il giorno in cui mi trovassi ad essere militante di un partito che si chiamasse soltanto “democratico”, certamente meno pesante, io personalmente sentirei il dovere di testimoniare, con assoluta maggiore coerenza, il mio essere uomo di sinistra, anche perché non ci sarebbe più la protezione del nome». La “protezione” del nome. Ma questo è un dire a chiare note che cosa sono ancor oggi i diessini, ovvero dei comunisti in clandestinità! E fa capire che la faccenda del Pantheon o dei “compagni” non è una chiacchiera da cortile ma esprime una questione serissima: e cioè che il cuore diessino ancora galoppa alle note di Bandiera Rossa, anche se in una condizione di triste e forzata clandestinità.
Perché stupirsi allora della tanto discussa debolezza dei riformisti? L’anima della sinistra è meglio rappresentata da chi non si vergogna di quella storia e rivendica il proprio profondo legame con essa, sia pure per rifondarla o ripensarla. Esprime la vera identità della sinistra non chi farfuglia pietosamente attorno al vergognoso pasticcio del caso Mastrogiacomo, ma chi proclama senza problemi, come Giovanni Russo Spena, che la colpa di tutto è di Karzai e degli Stati Uniti, chi difende a spada tratta Gino Strada o chi dichiara – come Giorgio Cremaschi – che bisogna andarsene da Kabul, da «una guerra che non è stata mai decisa, un intervento che è perfino più grave di quello in Iraq». La vera anima della sinistra è quella espressa da Dacia Maraini quando dice che la vera schiavitù attuale è quella praticata nei «paesi più avanzati e democratici» che danno falsamente a bere di averla abolita in Europa nel 1815 e negli Usa nel 1865. I veri interpreti del cuore della sinistra postcomunista sono coloro che sono affezionati, ancor più che alla figura di Berlinguer, a quella di Lenin, del Che, di Mao, di Arafat, a Hamas e persino ai talebani. Perché per un vero “compagno” il nemico alberga comunque in Occidente.

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