
Depressione balcanica
I dodici chilometri di strada a tre corsie che corrono dall’aeroporto internazionale Otopemi a Piazza Romana nel cuore di Bucarest sono la scena di una grande pantomima a metà strada fra nascondino e guardie e ladri. Ogni 500 metri, fra un caseggiato popolare eredità del socialismo reale e un palazzo ottocentesco in stile viennese o Liberty, un poliziotto con la camicia azzurra e la visiera stile Armata Rossa ferma un veicolo e apostrofa severo l’imbarazzato automobilista. Ne fanno le spese i conducenti delle vecchie e numerosissime Dacia 1310 che, non si sa come, ventisei anni dopo l’uscita del primo modello (il secondo è arrivato da poco) tengono ancora la strada, ma soprattutto ne fanno le spese i guidatori di Fiat, Mercedes e Citroen con targhe tedesche, francesi e italiane che spiccano nel modesto panorama del parco macchine viaggianti. Raramente si tratta di stranieri, ma quasi sempre di rumeni che hanno raggranellato, più spesso all’estero che in patria, i soldi necessari per permettersi una vettura di standard europeo. La polizia stradale li ferma per eccesso di velocità: il limite è 80 all’ora, poi scende a 60; la strada è libera e invitante, l’infrazione inevitabile. E anche se non c’è, i pretesti per fermare l’automobilista eurofilo sono tanti: controllo documenti, un fanalino rotto, un cambio di corsia non segnalato. D’altra parte lo stipendio di un poliziotto, come quello della massa dei dipendenti pubblici, si aggira attorno a 1 milione e 600mila lei (la moneta locale): dietro a tutti quegli zeri si cela la miseria di 100 dollari al mese. Per far sopravvivere a Bucarest una famiglia di quattro persone ce ne vuole quasi il triplo. Ovvio che in qualche modo bisogna arrotondare. Gli inespressivi tutori dell’ordine sparano penalità salatissime, fra i 50 e i 350mila lei, ma alla fine si accontentano di importi molto inferiori, fra i 20 e i 50mila, che senza verbale finiscono direttamente nelle loro tasche.
Incomprensibile, ingrato Occidente La superstrada fra l’aeroporto e la capitale, coi suoi poliziotti occhiuti e venali e i suoi automobilisti frustrati, è la perfetta allegoria della Romania di oggi, e forse di tutto l’Est europeo: un popolo intero vorrebbe correre sulle ali della libertà, abbandonare le pesantezze balcaniche ed essere riconosciuto come europeo e occidentale; ma scopre che le catene del passato non sono affatto spezzate, che l’Europa resta un sogno proibito. E sprofonda nella delusione, non solo per colpa dei poliziotti veterocomunisti.
“Per i musulmani avete fatto la guerra, per noi che siamo come voi non alzate un dito; siamo cristiani come voi, odiamo il comunismo e vogliamo la democrazia e l’economia di mercato: perché non ci volete nella Nato e ci tenete fuori dall’Unione Europea? Lo sapete che con la vostra guerra e con le vostre sanzioni alla Serbia avete distrutto la nostra economia? Vi abbiamo aperto il nostro spazio aereo per bombardare i serbi, che sono l’unico vicino con cui non abbiamo mai fatto guerre, lo abbiamo chiuso ai russi, e per ricompensa continuate a trattarci come straccioni, a chiederci estratti bancari, lettere di invito e mille documenti per un visto di ingresso in Italia. Perché?”. Seduto sui gradini del Teatro nazionale, sul lato est dell’amplissima piazza dell’Università che ha visto scorrere il sangue nell’89 quando un’ambigua rivoluzione ha deposto e fucilato il dittatore comunista Ceausescu, Bogdan sfoga tutto il suo dispetto per l’incomprensibile (secondo lui) freddezza occidentale. Ma perché la Romania non riesca neppure a entrare nella lista d’attesa dell’Unione europea non si fatica a capirlo: con un’inflazione tendenziale vicina al 40 per cento all’anno, un deficit della spesa pubblica pari al 10 per cento del pil e una moneta che nel giro di sei mesi ha perso più della metà della sua parità col dollaro, il paese del conte Dracula appare davvero dissanguato e lontano da tutti i criteri di convergenza fissati a Maastricht. E anche se rinunciasse a partecipare alla moneta unica, la Romania non sarebbe la benvenuta: l’inefficienza del sistema fiscale, che ha permesso alle grandi imprese statali eredità del comunismo di accumulare arretrati di imposte pari a un quinto del pil nei confronti dell’erario, la pervasività di un’economia sommersa fondata sul contrabbando che supera di molte misure l’economia formale, le cupe previsioni sulle capacità romene di onorare le scadenze del debito estero (ancora 1 miliardo di dollari da pagare entro la fine di quest’anno, altri 2 entro il 2000) sono altrettante ipoteche sul futuro europeo del paese.
NATO e Romania: il danno e la beffa Non bastasse tutto questo, non bastasse la previsione di crescita negativa per il terzo anno consecutivo (meno 6,6 per cento nel ‘97, meno 7,3 lo scorso anno e probabilmente meno 2,2 quest’anno), è arrivata la guerra del Kosovo. I ponti sul Danubio abbattuti dall’aviazione Nato hanno reso il grande fiume non navigabile, e con ciò hanno temporaneamente inaridito un’importante fonte di entrate per due pacifici paesi balcanici, Romania e Bulgaria, che dal commercio fluviale e dai diritti di navigazione sul Danubio traggono preziose risorse in valuta pregiata. Bucarest stima a 50 milioni di dollari la settimana le sue perdite per il diminuito traffico commerciale e per l’aumento del costo dei trasporti. Le riserve di valuta, che a gennaio erano pari a 2 miliardi di dollari, sono scese a 1 miliardo. Mentre il rimborso del debito estero incombe. Un’altra beffa cocente per un paese dove, prima della guerra, il 90 per cento della popolazione era favorevole all’adesione alla Nato. E ancora adesso questa opzione raccoglie una confortevole maggioranza sopra il 60 per cento, sicuramente perché i romeni sanno bene che i mali dell’economia e della politica romena risalgono a ben prima del 24 marzo.
“La prossima volta Costantinescu non mi frega più. Io avevo creduto alle sue parole d’ordine: liberismo, economia di mercato, opportunità per gli investimenti e per le imprese. Insieme a due soci ho costituito una società finanziaria per operare in Borsa. Credevamo che il mercato avrebbe avuto un boom, che tanti clienti si sarebbero rivolti a noi. Invece nel giro di due anni la capitalizzazione della Borsa rumena si è dimezzata. Ci ho rimesso 5mila marchi tedeschi, e sarebbe finita ancora peggio se non avessimo trovato qualcuno che ha rilevato la società. E’ gente che lavorava nella Securitate, la polizia segreta di Ceausescu. Si sono specializzati nel riciclaggio dei soldi del contrabbando di carburante con la Serbia, godono di protezioni ai massimi livelli del ministero incaricato delle dogane: adesso la società va a gonfie vele”.
Delusione Costantinescu Il mancato capitalista infuriato col presidente democristiano della Romania è Adrian, un cinquantenne dipendente della pubblica amministrazione di Arad, piacevole cittadina della Transilvania occidentale dove l’impronta degli Asburgo si coglie ad ogni passo. Qui il tenore di vita e il reddito sono più alti che nel resto del paese: mentre la media nazionale si aggira sui 2.000 dollari pro capite, qui tocca i 3.500-3.600; e il costo della vita è un 20 per cento più basso che a Bucarest. Ma proprio i relativamente benestanti transilvani sono i più delusi della gestione Costantinescu, che è al potere dal ‘96 con una coalizione di quattro partiti centristi imperniata sul suo Partito Nazionale dei Contadini Cristiano-Democratico. Costantinescu aveva sconfitto il presidente uscente Iliescu, leader dei post-comunisti che avevano gestito la transizione del dopo ‘89. “Non si riesce a credere che questo sia un governo di centro-destra -insiste Adrian-. A parte un paio di privatizzazioni, le cose stanno tali e quali al tempo di Iliescu: le uniche imprese e gli unici imprenditori che si arricchiscono sono gli ex della nomenklatura del partito comunista e della Securitate. Vincono gli appalti pubblici, gestiscono gli alti livelli del contrabbando, corrompono i pubblici ufficiali. Quelli come me, che nell’89 hanno rischiato le pallottole sulle barricate, sono rimasti con un pugno di mosche”.
Il problema è che con un pugno di mosche non si campa. Un impiegato di prima nomina della contea di Arad o un insegnante di prima nomina a Bucarest portano a casa 900 mila lei, un alto dirigente di Arad o un tranviere di Bucarest (categoria forte) ne portano 2 milioni e mezzo. Ma un affitto appena passabile costa 1 milione di lei ad Arad e 2 a Bucarest; un abitino da donna in acrilico viene 450mila, un paio di scarpe da donna estive stanno fra i 600 e gli 800mila. E anche se la casa è di proprietà, a Bucarest le spese condominiali sono calcolate in 74mila lei pro capite: una famiglia di quattro persone ne pagherà quasi 300mila al mese. Ovvio che in una situazione del genere bisogna arrangiarsi. “Le regioni di confine con la Serbia sono specializzate nel contrabbando di benzina -spiega Cipriano, laureando in lingue straniere dell’Università cattolica a Bucarest-; la si trasporta anche con auto private, occultandola in serbatoi ricavati nel vano del sedile posteriore. Ma bisogna prima prendere accordi coi doganieri jugoslavi. Qui a Bucarest va forte il mercato dei componenti di computer e cellulari “usati” provenienti dall’Ungheria: si tratta di articoli rubati in Italia e Germania che transitano attraverso l’Ungheria, vengono smontati e poi di nuovo assemblati qua in Romania. A Bucarest puoi trovare un computer Pentium di prima generazione per l’equivalente di 1 milione di lire. Gli studenti si ingegnano a copiare e vendere programmi informatici, o ad aggirare le difese di banche dati straniere. Un ragazzo di 17 anni è diventato famoso per essere riuscito ad accedere alla banca dati superprotetta di una multinazionale Usa. Gli americani gli hanno offerto di lavorare per loro”.
Moda italiana contraffatta e prostitute vere Con la Serbia invece è forte il commercio di capi di abbigliamento contraffatti. Come ha recentemente raccontato anche il Financial Times, Belgrado è la capitale della ricettazione dell’alta sartoria italiana e francese. I capi trafugati vengono venduti ai ricchi del posto, mentre i modelli vengono riprodotti e venduti in tutti i Balcani a prezzi che non temono concorrenza. “Durante il mio primo viaggio in Italia -racconta un amareggiato Cipriano- a Roma ho acquistato un maglione Dolce & Gabbana per 250mila lire: una fortuna, che a quel tempo equivaleva a 1 milione e 250 mila lei. Quando sono tornato a Bucarest, nel giro di una settimana ho incontrato tre persone che vestivano il mio stesso identico modello. Al terzo non ce l’ho fatta più, e gli ho chiesto quanto l’aveva pagato. “55mila lei”, ha detto. Mi sarei voluto picchiare da solo”.
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