
Il Deserto dei Tartari
Depressione e terrorismo jihadista: la coppia diabolica
«Ne uccide più la depressione che la repressione», recitava tanti anni fa un personaggio in Maledetti, vi amerò, pellicola d’esordio di Marco Tullio Giordana. Quel monito, che nel film si riferisce ai “compagni” che sprofondavano nell’eroina o direttamente si suicidavano dopo il fallimento della speranza rivoluzionaria del 1977, è tornato sinistramente d’attualità con le ultime stragi a sfondo islamista in terra europea, materialmente realizzate da soggetti mentalmente disturbati. I quali sì si suicidano o vanno comunque incontro a morte certa, ma portando con sé decine di innocenti inermi e colpiti a tradimento. La depressione oggi ne uccide molti più della repressione perché non uccide solo il depresso: costui fa in tempo a trasformarsi in paranoico e quindi in stragista. Ai suoi occhi gli innocenti non sono innocenti né inermi, sono colpevoli del suo fallimento, delle sue sofferenze, e l’islamismo jihadista gli fornisce l’opportunità per politicizzare e sacralizzare, e quindi universalizzare la loro colpevolezza. Il depresso divenuto paranoico si sente moralmente e politicamente giustificato a fare quello che fa.
Mentre sui media e nella rete già si affrontano due nuovi partiti antagonisti, quello di coloro che depotenziano il problema del terrorismo islamista a questione di salute mentale di singoli individui e quello di coloro che irridono tale riduzione e spingono il loro sarcasmo fino ad accusare gli avversari di «volere combattere il terrorismo col prozac» (Enrico Mentana), lo stato delle cose non è poi tanto difficile da decifrare: depressi paranoici e burattinai dell’Isis si strumentalizzano a vicenda, reciprocamente, ognuno per i suoi scopi. Quello dei secondi è politico, è l’edificazione del califfato che passa attraverso la sottomissione dei popoli realizzata con la guerra e col terrorismo; quello dei primi è psicologico, è il senso di sollievo che viene dalla giustificazione teologica e politica degli atti orribili che una pulsione di morte li sta spingendo a commettere.
Il dibattito se si tratti di islamici pazzi o di pazzi islamici, cioè se sia più la follia o più l’islam che spinge i soggetti a compiere i loro delitti, merita di essere spento sul nascere in quanto superfluo e foriero di perdite di tempo. La follia viene prima della radicalizzazione, questo è ovvio. Ma è altrettanto ovvio che senza la possibilità storicamente a portata di mano di inserirsi in una grande narrazione politico-religiosa, di collegarsi a un universo simbolico come è quello del califfato con le sue idee di purezza e impurità, giustizia e ingiustizia, martirio e infedeltà, ecc. quei depressi paranoici normalmente si butterebbero sotto il treno o sotto la metropolitana per causare un po’ di disagio al prossimo nel mentre che si suicidano, o in un caso su molti milioni si lancerebbero contro una montagna con un aereo carico di passeggeri ignari. Senza l’ispirazione ideologica del califfato e/o senza un supporto logistico anche limitato da parte di qualche complice, personalità disturbate come Omar Mateen (strage di Orlando) o Mohammed Lahouaiej Bouhlel (strage di Nizza) al massimo oltre a se stesse avrebbero ucciso mogli e figli e qualche altra persona a loro affettivamente (ovvero anaffettivamente) legata che avrebbero giudicato responsabile del loro disagio esistenziale.
D’altra parte movimenti rivoluzionari e regimi politici autoritari o totalitari hanno sempre usato e tuttora sfruttano il disagio psichico (in aggiunta alla manipolazione psicologica delle masse, ma questo è talmente ovvio che non vale la pena approfondire qui) dei singoli. Dove credete che vadano a cercare i loro torturatori, i loro capi della polizia segreta, i loro pubblici ministeri per processi burletta i regimi del presente e del passato? Pensate che gli assassini di Giulio Regeni siano persone “normali”? Sadici, maniaci del controllo, sociopatici vari sono da sempre collaboratori preziosi e ricercati dei sistemi politici che hanno bisogno della violenza e dell’intimidazione per imporsi e mantenersi. Per non parlare poi dei grandi leader: centinaia di grandi protagonisti della storia sono sospettati di gravi malattie mentali, che ne hanno fortemente condizionato le azioni non solo private ma di governo, ma che non hanno impedito loro di esercitare il comando e un forte ascendente su molti uomini. Per comodità cito solo tre esempi fra i più noti: l’imperatore romano Caligola, lo zar Ivan IV detto “il Terribile”, il führer Adolf Hitler.
Questo apre la riflessione sul fatto che la politica potrebbe essere vista non solo come un soggetto che strumentalizza la follia a proprio vantaggio, ma follia essa stessa. Se fosse vero quello che Freud scrive della religione, e cioè che essa è la «nevrosi ossessiva universale dell’umanità», e se ammettessimo che i grandi sistemi ideologici, tutti più o meno totalitari, altro non sono che forme di religione secolarizzata, concluderemmo facilmente che l’islam politico (religione più ideologia) in tutte le sue forme, e a maggior ragione nella sua versione del califfato universale, è una nevrosi, cioè un disordine mentale. Un islamista, non necessariamente un fanatico di Al-Baghdadi ma un simpatizzante di Erdogan o un iscritto del Caim o della Ucoii italiane, potrebbe controbattere che se, stando alla definizione freudiana, la religione è una nevrosi perché è illusione che nasce da desideri profondi dell’uomo, allora lo stesso si deve dire delle ideologie politiche moderne, sia quelle totalitarie che quelle che si considerano favorevoli a una società aperta: democrazia, liberalismo, neoliberalismo, socialdemocrazia. Se sono illusione Dio e la vita eterna, non sono meno illusorie – anzi lo sono di più – la giustizia e l’uguaglianza perfette su questa terra che promette il comunismo e la libertà individualista esercitata nella più perfetta autonomia promessa dalle varie correnti liberali. Uguaglianza? Libertà che consente la ricerca della felicità? Ma per favore, guardatevi attorno, potrebbe replicare un Davide Piccardo qualsiasi. Chi di patologizzazione ferisce, di patologizzazione perisce.
Dunque si tratta di affrontare contemporaneamente due questioni distinte ma collegate fra loro nell’attuale frangente storico: il progetto politico da cui nasce il terrorismo islamista e il disagio psichico di individui che facilmente possono essere risucchiati nello stragismo jihadista. Evidentemente non con gli stessi mezzi, perché la specificità delle due questioni richiede approcci diversi. Qui vorrei fare alcune considerazioni solo sulla seconda delle due questioni. Prima di diventare un omicida-suicida, l’attentatore era un uomo entrato nel tunnel della malattia mentale, a volte da adulto ma a volte anche durante l’infanzia o l’adolescenza. La sequenza è dunque: nascita – malattia mentale – morte da omicida-suicida. Se prevenire l’insorgere della malattia mentale è quasi impossibile, lo stesso non dovrebbe potersi dire del secondo passaggio: quello dalla condizione psichiatrica alla paranoia criminale. Il folle non è un omicida in potenza più di quanto non lo sia chiunque di noi. Il folle è il più sensibile e fragile degli uomini (e delle donne), non ha sopportato le avversità della vita, la contraddizione fra ideale e reale, la mancata realizzazione del sogno d’amore che tutti ci portiamo dentro. Certamente per una predisposizione biologica alle patologie psichiche più gravi, ma anche per motivi che non mi vergogno di considerare e definire spirituali.
È questa delicatezza del folle il punto su cui far leva non solo perché non si trasformi in uno stragista, ma perché noi stessi possiamo diventare uomini migliori. Uomini migliori che saranno capaci di accettare le diversità religiose e contemporaneamente combattere armi alla mano i fanatici, accarezzare i bambini degli altri e difendere efficacemente i propri. Consiglio a tutti di rileggere l’intervista che Eugenio Borgna, il grande psichiatra italiano, mi rilasciò nel giugno di un anno fa. Borgna scrive che la malattia psichica è «un cammino di inaudita sofferenza umana» che ha bisogno di «parole e gesti che siano capaci di lenire almeno per un attimo la solitudine e la disperazione dell’anima». E alla mia domanda su quello che il sano dovrebbe e potrebbe fare in relazione al malato rispondeva: «Il malato psichico è estremamente sensibile, coglie ogni sfumatura, ogni gesto o parola superficiali lo feriscono. L’unica regola per non compromettere tutto sin dall’inizio è quella di saper guardare dentro agli occhi e ai gesti fisici di una persona. Se i nostri saranno occhi bagnati di lacrime, occhi che ci permettono di immedesimarci nella vita interiore del malato, nel suo dolore, di vedere l’anima ferita in fondo ai suoi occhi, allora riusciremo a essere di aiuto. (…) Ho conosciuto delle infermiere così intuitive ed emotivamente mature da saper realizzare nel rapporto coi malati le parole del comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Troppo spesso la psichiatria tradizionale non tiene conto della vita intima dei pazienti. Le cure farmacologiche sono indispensabili, ma sono strumenti che vanno inseriti nel contesto del rapporto personale col malato».
C’è un lasso di tempo fra l’insorgere del disagio psichico e il suo sfociare nella follia assassina che non il prozac, ma l’amore per il prossimo potrebbero riempire al punto tale da impedire la caduta nell’orrore. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è comandamento non facoltativo ed efficace sia mentre si combatte con le armi il nemico jihadista che vuole impadronirsi della tua terra e rendere schiavi i tuoi cari (non si odia il nemico che si combatte, ma il male che lui vuole fare e che ci costringe a combatterlo militarmente per impedirgli di realizzarlo), sia nei rapporti coi malati mentali e coi depressi, persone che istintivamente tenderemmo ad evitare. Amare il nemico che è il terrorista o il militante dell’Isis significa non essere crudeli con lui, credere che la sua conversione è possibile, sperare sinceramente nella misericordia di Dio nei suoi riguardi. Amare il malato mentale vuol dire non evitarlo, fare posto dentro di sé al suo dolore, alleviare la sua solitudine, permettergli di accettare almeno un po’ se stesso. Quella piccola misura in più di accettazione di sé da parte del malato mentale determinata da un rapporto umano può fare la differenza fra la sciagura di una strage e tante vite salvate.
Foto Ansa
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1 commento
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Per quanto raffinatamente si argomenti, il depotenziamento di un’ideologia RIMANE depotenziamento di un’ideologia.
Occhio a giustificare il male, il secolo scorso sta lì a testimoniare che, difficilmente, decine di milioni di persone possono essere pazze, malate, depresse, nello stesso periodo e nello stesso paese.