Dicono alla City: il default? Solo capitalismo un po’ casereccio

Di Pietro Piccinini
29 Gennaio 2004
Cirio e Parmalat affondano portando con sé centinaia di migliaia di risparmiatori

Cirio e Parmalat affondano portando con sé centinaia di migliaia di risparmiatori, mentre infausti auspici vedono già soccombere sotto i colpi dei debiti anche il resto dell’industria del Belpaese. Si prepara per l’Italia novella Argentina un altro saccheggio da parte delle cordate finanziarie anglo – americane? Tempi lo ha chiesto ad un operatore economico della City londinese (che, per ragioni professionali, ha preferito mantenere l’anonimato) da lungo tempo avvezzo a trattare bond e titoli azionari.
Quali colpe hanno realmente avuto nel crac Parmalat le banche e le società di revisione implicate?
Le società di revisione non hanno fatto appieno il loro dovere. Quando un’azienda vanta crediti o segnala debiti di importo significativo, si suppone che le società di auditing compiano i cosiddetti “check circolar”: in genere mandano delle lettere alle controparti chiedendo conferma dell’esattezza delle cifre inserite in bilancio. Non è normale che non siano stati eseguiti questi controlli, specie quando il dato di bilancio rappresenta in sé un’anomalia (un deposito di 3,5 milioni di euro a fronte di un ulteriore indebitamento dovrebbe insospettire, dal momento che l’interesse sui liquidi è minore dell’interesse sui bond).
Per le banche invece il discorso è diverso: esse sono vittime di questa vicenda. Certo, hanno fatto male il loro lavoro se hanno prestato capitali a una società dalla quale poi non potranno più sperare di essere rimborsate, però sono loro le prime a rimanere con i debiti in bilancio. Salvo ovviamente immaginare che qualche banchiere dell’area romana sia colpevole di una gestione di tipo “casereccio” (magari prestava soldi a Parmalat in cambio di favori come l’acquisto delle acque minerali da Tizio o Caio); o immaginare che chi fa l’arrangement dell’emissione del bond magari analizzi superficialmente certi bilanci per ottenere un bonus, una commissione per la chiusura dell’operazione. Esiste tutta una serie di cautele su questo tipo di investimenti, solo che le singole banche possono essere un po’ più garibaldine.
Il sistema bancario “garibaldino” investe più per speculare che per assecondare la produzione industriale? Oppure prepara l’arrembaggio delle cordate finanziarie straniere?
C’è in effetti una tendenza delle banche a sottovalutare problemi di bilancio in favore di rientri immediati, ma è tutt’altra cosa rispetto a un disegno preordinato di saccheggio. Parmalat e Cirio, aldilà del fatto che i loro profitti venivano mangiati dagli interessi, erano mondi molto sani sul piano industriale. Per colpa della gestione aziendale “disinvolta”, ci hanno rimesso soldi anche i fondi comuni, le grosse organizzazioni che, con alle spalle servizi professionali di consulenza e controlli, investono in tutto il mondo in questi titoli e non hanno alcun rapporto di connivenza con operatori dei singoli mercati. La truffa del cavalier Tanzi ha superato anche questo tipo di vaglio perché la finanza assume che un’azienda quotata presenti bilanci validi. Aldilà dei casi di favoritismo o di speculazione, è impensabile che aziende che hanno assunto rapidamente dimensioni di multinazionali continuino ad essere gestite come se fossero la latteria sotto casa. Situazioni del genere fanno molte vittime e quasi nessun vincitore. Certo è possibile che si presenti un gruppo americano per l’acquisto di un settore della Parmalat, ma non mi pare che dietro i recenti crac italiani ci sia un disegno come in passato dietro il caso Ferruzzi. Allora il gruppo era solido e produceva utili, poi improvvisamente venne privato della liquidità dal mondo bancario coalizzato. Qualcuno voleva strozzarlo per potersene appropriare. Il problema vero di queste crisi risiede nella cultura imprenditoriale italiana, che adesso dovrà cambiare radicalmente per recuperare in termini di credibilità e di fiducia degli investitori.

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