Dicono che D’Alema sia razionale. Io non rinuncio al beneficio del dubbio
Fabrizio Rondolino ha pubblicato sul Corriere della Sera un’appassionata filippica in difesa di Massimo D’Alema che evoca l’aforisma di Lucio Colletti secondo cui la metodologia è la scienza dei nullatenenti. Dice Rondolino che D’Alema si è trovato a far politica in un’Italia «stordita e stravolta dal crollo dei partiti democratici», in cui si sono scatenate «le forze primordiali e belluine della sinistra antioccidentale, del centro clericale e della destra xenofoba». In questa «ex Jugoslavia della politica» D’Alema ha provato a fare le due sole cose che andavano fatte: un accordo bipartisan per una nuova costituzione e un governo di centrosinistra senza comunisti. Anche se non ci fosse riuscito per suoi difetti, continua Rondolino, questi nodi andranno comunque affrontati, e allora bisognerà approdare alla razionalità di D’Alema, un politico che «maneggia la complessità con gli strumenti della ragione», a cui vanno i «lazzi del pubblico pagante» in un paese «bendisposto verso le servette».
Come non essere d’accordo circa la necessità di una riforma costituzionale concordata? E chi non vorrebbe un partito di sinistra autenticamente riformista? Concediamo pure che D’Alema ha fallito non perché sia – come ha scritto Andrea Romano – «un mesto incrocio fra Don Chisciotte e Don Abbondio», bensì per la cretinaggine altrui. Ma siamo ancora alla metodologia pura. Per farle davvero, quelle cose, ci vuole la cultura politica adatta. Qui casca l’asino, perché è tutto da dimostrare che D’Alema pensi in termini davvero riformisti e che non resti invece un comunista, sia pure in incognito. La razionalità in sé e per sé è un macinino, bisogna vedere che cosa ci si mette dentro e che cosa esce fuori. E quel che produce la razionalità di D’Alema spesso è inquietante. Sì, è noto che D’Alema periodicamente bacchetta il corporativismo dei sindacati, bastona l’estrema sinistra, comanda un bombardamento sul Kosovo o telefona a Condi. Poi però al primo strillo dei sindacati fa macchina indietro, e assume posizioni di politica estera che soddisfano talmente l’estrema sinistra da farle levare il grido di dolore che si è sentito dopo il suo discorso al Senato: ma perché, dopo aver detto cose tanto giuste, vuoi che ci sorbiamo la base di Vicenza e la missione in Afghanistan? Per capire quanto D’Alema ami gli Stati Uniti occorre riascoltare la famosa intervista in rete dell’inizio del 2006, in cui disse che gli Stati Uniti conoscono soltanto l’ideologia della violenza, mentre l’Europa è “superiore”. Occorre ricordare le assurdità pronunciate durante la guerra del Libano, la comprensione per Hezbollah e l’incomprensione sistematica per Israele. Ma basta da solo il recente apprezzamento del riconoscimento “implicito” di Israele da parte di Hamas. Che magnifica dimostrazione di senso istituzionale parlare di riconoscimento “implicito” nei confronti di uno Stato membro dell’Onu da sessant’anni!
D’Alema ha anche detto che nel partito democratico bisognerà continuare a chiamarsi “compagni”, perché i compagni sono quelli con cui si condividono gli ideali. Ognuno ha diritto di coltivare le sue attrazioni profonde; di guardare con nostalgia, dal fondo della barbarie odierna, al mondo in cui c’era il Pci; di pensare Togliatti e Berlinguer come campioni di razionalità; e persino di credere che il comunismo non c’entri nulla con le forze belluine antioccidentali. Purché non pretenda di farlo credere agli altri e non si illuda che su questo terreno sia facile creare una visione condivisa della politica e, soprattutto, un nuovo riformismo.
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