Non credo sia per lamentosa petulanza,
segno di immatura vecchiaia,
da cui peraltro non mi ritengo immune,
piuttosto per l’approssimarsi urgente
della compiuta esperienza
di quell’inizio di infinito Destino
di cui si gode quaggiù senza esserne sazi,
mai,
che il mattino di qualche giorno fa,
nell’aula degli insegnanti della scuola,
d’improvviso l’aria s’è fatta irrespirabile,
la stanza angusta come un buco,
una tana ingrommata di rancida muffa.
Gettato di colpo dentro
un mondo diminuito e meschino:
paroline, ragazzini, minestrine, vacanzine, compitini, lezioncine,
carine giornatine carine e bruttine seratine bruttine.
Sparita la scuola;
al suo posto un labirinto,
distratto e feroce,
per topolini addestrati,
un rifugio pericolante sopra l’abisso,
un ricovero fuori luogo e fuori tempo
di faraoni precocemente mummificati.
Come bambini dalla pelle di bufalo
gli adulti, in specie tra i quaranta e i cinquanta,
oscillano su di un’altalena
e giocano con i birilli di ieri e di domani.
Sparito il presente
con la sua densità:
Dio che nell’istante s’incontra con noi,
e un verso di Guinizzelli,
una donna precocemente morta di cancro,
le trincee armene e ucraine
la ragazzina smilza che non vuole mangiare.
Qui è il fuoco dell’Essere,
il già e il non ancora del Destino.
Dovranno essere i ragazzi a insegnarlo?
A svegliare dal sonno i loro maestri?