Se i piedi potessero parlare… Se questi miei piedi avessero la bocca, una lingua, una voce…
L’alfabeto dei piccoli armeni sono voci,
ricordi, frammenti, sussurri
di bimbe e di bimbi
giunte dal tempo del grande crimine,
medz yeghern è il suo nome,
un secolo e qualche straccio di anni fa.
Ne raccolgo qualche rossa spiga
di fuoco di sangue e d’amore;
per trapiantarla nel deserto d’oblio
di questa giostra d’occidente,
che gira come il tamburo della rivoltella
nella festosa liturgia della roulette russa.
Giova curare la memoria dei morti:
la carne, infatti, è dimora dello Spirito,
come il mondo è dimora di Cristo.
Senza lo Spirito la carne è una carcassa immonda,
come il mondo, senza memoria di Cristo,
è un immenso cimitero di ossa.
Dai tetti piovono turchi. Sono dentro casa, sono entrati dal cortile.
La porta della mia camera si è spalancata di colpo.
I soldati sono dentro.
Grido con tutto il fiato che ho: «Mamma! Mamma!».
Ho paura.
Mi nascondo dietro a un cespuglio.
Uccidono tutti con le lame delle loro baionette, uccidono anche Siranùsh, si è aggrappata alla mia mamma e quello l’ha trafitta affondandole il pugnale nel ventre.
Piango.
Tremo.
I soldati cercano i vivi tra i cespugli, come si fa con le bacche. Spostano i rami, sperano di trovare i loro frutti nascosti.
…non riesco a smettere di pensare alla mia famiglia. Dove sono i miei parenti? Quando vedo i colombi volare e poggiarsi sui tetti, non posso non pensare alle anime dei miei cari.
Non si dice forse che la grande arca di Noè si è posata sulla cima del nostro monte e che la colomba è tornata da lui con il ramoscello d’ulivo nel becco?
Di giorno sembriamo corvi. Ci aggiriamo cercando del becchime. Tra l’erba secca e tra i cespugli. Cerchiamo semi da beccare. Ma abbiamo bocche umane, non il becco duro dei corvi. Mastichiamo i semi che troviamo. Li cerchiamo tra gli escrementi dei cavalli, degli uccelli, delle capre, semi non digeriti che si seccano e restano interi.
Crudi, li mastichiamo. Non c’è acqua, non c’è fuoco, non c’è niente.
Solo fame e sete.
Non siamo corvi e non abbiamo il tempo di fare un nido, siamo come cavalli, muli, senza una tana, senza un posto in cui tornare. E che se piove si proteggono sotto un ramo o restano ritti sulle zampe in attesa che smetta.
Ma noi siamo esseri umani e abbiamo bisogno di un rifugio.
In ginocchio sfrego i pavimenti. Straccio e secchio sono i miei arnesi da lavoro.
Mangio i resti dei loro pasti. Come i nostri cani che mangiavano i nostri avanzi.
C’è una ragazza che mi guarda da quando sono arrivata.
Anche lei è una schiava come me.
Non parla con nessuno.
Sembra impaurita. Gli occhi sbarrati, cammina rasentando le pareti come volesse scomparire…
La vedo portare l’acqua dal pozzo, va al pascolo e torna con il secchio del latte pieno. Ha le braccia lunghe lunghe.
Secondo me è per via del secchio, è talmente pesante che alla fine le ha
allungato le braccia.
Oggi mentre sfregavo per terra si è avvicinata piano, e senza far rumore ha fatto rotolare una mela verso di me.
Ho alzato gli occhi e l’ho guardata.
Ha posato l’indice sulle labbra come a dire: «Stai zitta». E subito è scomparsa dietro l’angolo.
Prendo la mela e subito noto che sopra ci ha scritto qualcosa in armeno: «Il mio nome è Hripsimé. Coraggio, sorellina».
Da lontano… Il suono delle campane di una chiesa!
Sarà il vento? Sarà la nostra immaginazione?
Ci affrettiamo, con le mani ci aggrappiamo ai sassi, alle piante.
Infine eccola, una chiesa di campagna… Siamo oltre il confine.
Siamo salve!
Ci sistemiamo sotto il muro della chiesa. I missionari ci hanno viste e ci fanno entrare nel cortile.
Io imparo a cucire, a ricamare, le volontarie ci insegnano un mestiere, così potremo lavorare e guadagnarci il nostro pane, senza attendere la carità.
La nonna non è più quella di una volta.
Parla poco e fuma sigari che si prepara da sola.
Il tabacco era il suo mestiere. Un tempo, a Kilìs, possedeva tanti terreni coltivati a tabacco, con le piante che svettavano alte.
Una mattina la trovo seduta al suo solito posto, immobile.
Il talismano che ho custodito per tanti anni si è rotto e si è aperto. Forse la nonna dall’aldilà ha deciso che era tempo di aprirlo. Srotolo.
Leggo: Mi vakhnàr.
«Non avere paura».
Sono circa quaranta giorni che siamo qui sulla cima del monte, circondati dai turchi. Siamo allo stremo, il cibo scarseggia. I sacchi di farina, di zucchero e le altre cose che avevamo per nutrirci sono finiti.
Dobbiamo andare via al più presto. La nostra sorte, dicono tutti, è legata al mare. «Cristiani in pericolo», c’è scritto su un grande lenzuolo che i nostri padri hanno fissato a terra. Accanto, un altro lenzuolo con una grande croce. Più chiaro di così non si poteva.
La scritta si dovrebbe vedere da lontano e se passa una nave e ci accoglie saremo salvi.
Preghiamo e ci raccomandiamo a tutti i santi e alla Vergine Maria.
Guardiamo l’orizzonte, sperando.
Una nave! Sventola una bella bandiera francese.
Il cielo ha ascoltato le nostre preghiere.
«Mamma, mamma, è arrivata una nave!».
I volontari della missione cristiana, quelli che cercano gli armeni vivi, ci hanno trovati.
Ai miei figli ho dato i nomi di coloro che ho amato e mai più ritrovato.
Grazie ai miei figli, ora i loro nomi risuonano di nuovo.
Vivo ad Aleppo.
Sono diventato un bravo medico e curo tutti quelli che vengono da me.
Riconosco quelli che non possono pagare il prezzo della visita…
Curo così il mio dolore: non ho potuto salvare mia madre.
Sono andato in pellegrinaggio a Gerusalemme, ci sono andato per confermare al Signore la mia fede.
Ho camminato lungo la Via Dolorosa, e solo io so cosa ho patito nel percorrerla…
Faccio il muratore, costruisco case.
Case in cui non abiterò mai.
Come potrei?
Preferisco avere il cielo come tetto, un albero dove poggiarmi e respirare. Sento un dolore dentro di me e se mi fermo troppo a pensare mi sembra di impazzire. Tutti mi apprezzano per il mio lavoro e per l’energia che metto in ciò che faccio. Non immaginano neanche quello che mi brucia dentro.
Siamo arrivate in Armenia, in Unione Sovietica. Senza una valigia, senza niente. Freddo e fame ci hanno seguite fin qui.
L’esodo forzato è una maledizione che non finisce, quando sai che non potrai più tornare a casa tua.
Vivo come camminando su una corda sospesa, superando corsi d’acqua e passando sopra precipizi senza fondo.
Un tempo i nostri predecessori bruciavano intere mandrie per nutrire i capricci degli dèi e auspicare una buona sorte in terra.
Ora il sacrificio di Gesù sulla croce non sembra essere bastato. Il fumo dei corpi bruciati dei nostri martiri sale in alto nel cielo.
Signore onnipotente, ti è arrivato l’odore dei nostri morti?
Le storie qui accennate si possono leggere in Alfabeto dei piccoli armeni di Sonya Orfalian, pubblicato quest’anno da Sellerio.