La preghiera del mattino

Dite alla Nato che anche nello scontro Turchia-Grecia ci sono aggressore e aggredito

Recep Tayyip Erdogan e Jens Stoltenberg
Il segretario generale Jens Stoltenberg accoglie il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan nel quartier generale della Nato a Bruxelles, 14 giugno 2021 (foto Ansa)

Su Formiche Gennaro Malgieri scrive: «Privo di cultura politica, di visione strategica, di programmazione e di autentica ambizione governativa fondata sulla consapevolezza della crisi sistemica italiana da esso animosamente alimentata, il partito di Grillo palesò subito la sua pochezza. In Europa stava con i gilets jaunes e con i suoi simili sfascia carrozze; oltre Atlantico cercava accreditamenti che non si confacevano con quelli che elemosinava al Cremlino».

Un intelligente osservatore come Malgieri coglie uno dei punti centrali dell’incredibile successo dei 5 stelle nel 2018: l’appoggio che a questo movimento è stato offerto insieme dall’anglosfera, tesa a ridimensionare l’influenza di Berlino e Parigi su Roma (l’ambasciatore britannico in Italia che lodava in tv i grillini, il New York Times che sosteneva Virginia Raggi a Roma, l’Fbi e la sua lotta alla mafia), e dal sistema di influenze, ben collegato a Beppe Grillo, di Pechino, che vedeva un’opportunità di inserirsi nel gioco politico italiano. Prima è caduto l’appoggio dell’anglosfera a Giuseppe Conte quando questi ha appoggiato (con un certo interesse del partito cinese) Ursula von der Leyen, poi è entrato in crisi il sostegno di Pechino quando Luigi Di Maio si è arruolato nel partito americano con la guerra in Ucraina. Tutto ciò ha contribuito a disgregare un movimento che contava più sul fuori che sul dentro della nostra nazione: anche grazie, come spesso ricordiamo, alla scelta di Giorgio Napolitano di far poggiare la nostra democrazia sull’”alto”, cioè sulle influenze internazionali, invece che sul “basso”, cioè il voto popolare. La sempre crescente astensione dell’elettorato, peraltro, dimostratasi anche alle recenti ammnistrative e al referendum sulla giustizia, spiega come fenomeni imprevedibili di disgregazione possono svilupparsi in pochissimo tempo e mandare ancora più allo sbando l’Italia.

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Su Startmag Teodoro Dalavecuras scrive: «Le regole non scritte dell’etichetta diplomatica hanno impedito a Mitsotakis di esprimere con la franchezza del caso il punto di vista dei greci sulle parole di Stoltenberg. Ci ha pensato, con una “lettera aperta” pubblicata su Kathimerini dello stesso giorno, Petros Molyviatis, che, pur firmandosi “cittadino ellenico”, è un autorevolissimo esponente dell’establishment politico diplomatico ateniese con trascorsi di ambasciatore all’Onu, alla Nato e a Mosca, tre volte ministro degli Esteri e, nei primi sei difficili anni (1974–1980) della democrazia ellenica rinata dalle ceneri della giunta militare, capo dell’ufficio politico del primo ministro Costantino Karamanlis. “Egregio signor segretario generale della Nato”, esordisce Molyviatis, “negli ultimi tempi lei fa dichiarazioni sulla crisi che domina nelle relazioni Grecia-Turchia. Apparentemente queste dichiarazioni mantengono l’equidistanza tra i due ppaesi”.“Nella realtà, tuttavia, sono inaccettabili nella forma, nella sostanza favoriscono l’aggressore ai danni dell’aggredito e in ultima analisi danneggiano l’Alleanza”. E da questo punto in avanti il “cittadino Molyviatis” va giù piatto. “Il segretario generale della Nato è l’impiegato dei governi che lo assumono e che ne versano lo stipendio col denaro dei loro contribuenti. Non dà forma a politiche – che sono opera dei governi – né esprime delle posizioni senza l’approvazione dei governi stessi. E appare evidente che queste dichiarazioni non sono state approvate dal governo ellenico”. “La ragione di vita di qualsiasi alleanza è evidentemente la solidarietà tra i membri dell’alleanza stessa. Qui però abbiamo uno Stato-membro della Nato, la Turchia, che rivendica ufficialmente e pubblicamente territori di un altro Stato-membro, la Grecia, e, nello specifico, 152 isole e isolotti dell’Egeo orientale».

Da uno dei 152 isole e isolotti evocati, sottoscrivo con forza le parole di Molyviatis e spero che la Provvidenza faccia un po’ ragionare gli americani su come debbano mettersi con ben altro impegno a definire un qualche decente ordine mondiale.

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Sul sito del Tgcom si scrive: «Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha informato i leader del G7 che sulla revoca del blocco del grano ucraino si è arrivati al “momento della verità”. Guterres, che ha tenuto colloqui separati con Ucraina e Russia, ha riferito che c’è un accordo tra le parti per il passaggio del grano da tre porti controllati da Kiev, inclusa Odessa, senza la necessità di sminare i porti e con un passaggio attraverso il Mar Nero in corsie sicure sotto la supervisione di Ucraina, Russia, Turchia e Onu».

Cercare di fermare l’escalation in atto sia dalla parte russa sia da quella del fronte occidentale, e definire i limiti e gli obiettivi di un conflitto che non deve sfuggire di mano, devono essere gli imperativi di chi non vuole che il mondo vada incontro alla catastrofe.

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Su First online si scrive: «Con la sua società a responsabilità limitata lussemburghese, Delfin, Del Vecchio controlla il 38,4 per cento di EssilorLuxottica, il 28 per cento dell’immobiliare Covivio (quotata alla Borsa di Parigi) e il 13 per cento di Luxair, compagnia aerea Lussemburghese. Per quanto riguarda Mediobanca (oltre il 19 per cento), negli ultimi anni ha ingaggiato una battaglia con il management guidato da Alberto Nagel, proponendo anche alcune modifiche alla governance. Da tempo circolavano voci sulla possibilità di uno scontro in occasione del rinnovo del Cda nell’ottobre 2023, ma ora gli scenari cambieranno sicuramente. La partita su Mediobanca è strettamente legata a quella sul Leone di Trieste, di cui Delfin detiene oltre il 9 per cento del capitale. In occasione dell’ultima assemblea Generali ha sostenuto la lista presentata da Francesco Gaetano Caltagirone, uscendo sconfitto dal confronto con la compagine presentata dal Cda uscente».

È morto uno dei pochi grandi imprenditori italiani che dopo essersi costruito un impero continuava a perseguire obiettivi strategici, invece che vendere il suo patrimonio a qualche investitore straniero come hanno fatto e fanno gran parte dei suoi “pari”.

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