Dolce morte crudele

Di Laura Borselli
15 Febbraio 2007
E questo sarebbe morire con dignità? Storie terribili arrivano dalla Svizzera, così diversa dalla propaganda che leggiamo tutti i giorni

obitorio-eutanasia-shutterstock

«Mi sono iscritto a un’associazione svizzera. Quando sarà il tempo, andrò lì, mi daranno una pillola e mi rispediranno a casa». Così parlava poche settimane fa in un’intervista a Tempi il filosofo Gianni Vattimo. Il padre del pensiero debole non è il solo a guardare alla Confederazione come la patria adottiva ideale nell’ora della morte. Ogni anno circa un centinaio di stranieri scelgono di porre fine ai loro giorni in Svizzera, paese in cui è illegale l’eutanasia ma non il suicidio assistito. In cui si è perseguiti se si spinge qualcuno a bere del veleno «per motivi egoistici», ma non se lo si assiste mentre porta alla bocca – rigorosamente con le sue mani – la sostanza letale. Una situazione paradossale resa possibile da una zona d’ombra nella legislazione. Una zona d’ombra che secondo il governo elvetico deve restare tale. La Confederazione ritiene che gli abusi nel campo minato dei suicidi assistiti e del conseguente “turismo del suicidio” si possano combattere con gli strumenti a disposizione. Insomma, la legge sull’eutanasia chiesta da più parti non serve.
All’inizio di gennaio la Sonntagszeitung, domenicale zurighese, ha rivelato le terribili storie di due persone che non hanno ottenuto affatto la fine che volevano. Una donna tedesca di 43 anni è morta dopo 38 minuti di grida e dolori. Aveva ancora in bocca il pezzo di cioccolata chiesto per stemperare il gusto amaro della dose letale di pentobarbitale sodico. La vita di A.H., cattolica impiegata come segretaria di direzione sulle rive del lago di Costanza, cambia nell’estate del 2003, dopo una diagnosi terribile: tumore al cervello. Un’operazione poi il calvario delle chemioterapie, infine la rottura col compagno di una vita. «Consolazione – scrive il giornale zurighese – la donna l’aveva trovata in Dio. E in Dignitas».
Nata nel 1998, l’associazione presieduta da Ludwig A. Minelli conta circa 4.500 membri in almeno 52 paesi. Dal 1998 all’inizio del 2005, 362 persone si sono recate a Zurigo per “morire con dignità”, come promette il motto dell’organizzazione. All’appuntamento con la morte che hanno scelto, i malati (quelli che si rivolgono a Dignitas sono per la maggior parte tedeschi e britannici) arrivano solo dopo aver incontrato un rappresentante dell’associazione. A quel punto un medico di fiducia deve incontrare l’interessato e prescrivergli il farmaco letale. Toccherà poi all’assistente di Dignitas il compito di consegnare la sostanza all’aspirante suicida e avvertire le autorità dopo il decesso.

L’ultimo bicchiere
L’organizzazione zurighese utilizza il pentobarbitale sodico. Quindici grammi di questo potente veleno cominciano a fare effetto nel giro di 2-5 minuti, inducono il coma e, dopo un lasso di tempo variabile, la paralisi dell’apparato respiratorio. Ma non sempre la procedura è così lineare, come rivelano alla Sonntagszeitung due amici di A.H., testimoni oculari del suo suicidio.
È il 13 novembre, giorno dell’anniversario della morte di sua nonna, quando la donna arriva insieme ai suoi amici Dirk Neuhaus e Pomina Bentson al numero 84 della Gertrudstrasse di Zurigo. Quando i tre entrano nell’appartamento preso in affitto da Dignitas l’impressione non è affatto confortante: «Sul pavimento c’era uno spesso strato di polvere – raccontano i due -. In un angolo, vecchi apparecchi elettrici; il letto, con la coperta verde e gialla, non sembrava neppure rifatto». Sul tavolo ci sono dei formulari da riempire. Gli amici della donna si accorgeranno solo dopo che nello stesso foglio sono riportati l’eventuale autorizzazione all’autopsia e una procura a favore del fondatore e capo di Dignitas per autorizzarlo «alla rappresentanza in concorso d’eredità».
A.H. prende le gocce che le impediranno poi di vomitare il barbiturico e alle 12.50 è tutto pronto. L’assistente di Dignitas porge alla donna il bicchier d’acqua con il veleno. Pochi giorni prima di arrivare in quell’appartamento di Zurigo, A.H. aveva parlato con il settimanale Stern. Aveva raccontato del senso di colpa, della paura e pure dell’inevitabilità della sua scelta, della sofferenza che la spingeva a liberarsi di quel corpo estraneo e malato. Con in mano il bicchiere, A.H. esita un istante, pronuncia una breve preghiera. «Nel nome di Dio» e poi inghiotte. La sostanza è amarissima, fa in tempo a chiedere un pezzo di cioccolato ma non a deglutirlo. «Improvvisamente la nostra amica ha alzato le braccia al cielo, urlava “brucia, brucio!”. Stringeva le braccia sul ventre continuando a gridare “brucio!”». La donna entra in coma, ma rimane rigida, inchiodata sulla coperta verde e gialla. In pochi minuti il respiro rallenta, A.H. diventa cianotica, poi d’improvviso sembra riprendersi, boccheggia, cerca l’aria come se stesse annegando, dalla sua bocca gorgoglii e suoni convulsi, fino a che non torna a respirare normalmente, riprende colore. Una manciata di minuti e ricomincia tutto. Le crisi respiratorie si ripetono per quattro volte, a un certo punto riapre persino gli occhi, finché all’inizio della quinta crisi il suo corpo smette di lottare. A.H. muore 38 minuti dopo aver mandato giù il suo ultimo bicchiere d’acqua.
Peggio è andata a Peter A. deceduto nell’agosto del 2004, dopo ben 72 ore di agonia. Il dottor Giovanni Fantacci, specialista in medicina generale a Zurigo, spiega a Tempi che in seguito al clamore suscitato da questi casi è venuto a sapere persino di un malato sopravvissuto alla dose di veleno mortale chiesta a Dignitas. «Inspiegabilmente, quest’uomo non è morto e in seguito si è detto molto felice di aver ricevuto una seconda vita».

La zona d’ombra nel codice penale
È la prima volta che storie così clamorose e sconvolgenti vengono alla luce. Né Dignitas è mai stata oggetto di condanne di alcun tipo. Lo stesso vale per l’altra associazione attiva nella Svizzera tedesca dal 1982, Exit, che, in seguito ai casi riportati dalla Sonntagszeitung, non ha nascosto la propria irritazione per la «pubblicità negativa» attirata sul suicidio assistito dall’atteggiamento non professionale dei “concorrenti”.
Le organizzazioni di aiuto al suicidio sono nate perché il codice penale svizzero giudica sempre punibile l’omicidio di una persona, anche se è quest’ultima a farne esplicita richiesta (art. 114); mentre non sanziona l’assistenza al suicidio, a meno che essa non venga attuata per motivi abbietti (art. 115), siano essi di natura materiale o immateriale. Exit e Dignitas non hanno mai avuto problemi legali, proprio perché non sussistevano (o quanto meno non potevano essere dimostrati) i motivi “egoistici” del gesto.
Un quinto dei suicidi in Svizzera è assistito, la proporzione arriva addirittura a un terzo nel Cantone di Zurigo. Una situazione che la Commissione nazionale etica per la medicina descrive come «allarmante» e che rischia di provocare danni sociali «incalcolabili». Uno studio del 1999, spiega ancora il dottor Fantacci, ha esaminato 43 casi di suicidio assistito da Exit nel Cantone di Basilea tra il 1992 e il 1997, scoprendo che tra i casi figuravano pazienti affetti da turbe psichiatriche e meno della metà dei malati risultavano colpiti da tumori maligni. Il rischio di abusi è altissimo e il carico da undici è arrivato all’inizio di febbraio, con una sentenza del Tribunale federale che autorizza, dietro consenso del medico curante, il suicidio assistito anche in caso di malattie psichiche.
Se la Commissione nazionale di etica ha individuato dodici punti sensibili per evitare che la situazione degeneri (quali l’obbligatorietà di più colloqui per decidere il suicidio, il parere di un secondo medico ecc.), la Confederazione, confrontata con questi rischi e con il poco edificante “turismo della morte”, si trova a un bivio: legiferare su questo delicato tema o lasciare le cose come stanno? Nel maggio dello scorso anno, l’Ufficio federale di giustizia e polizia ha studiato il tema su mandato del governo, giungendo alla conclusione che Berna non deve intervenire direttamente in questo campo.
Oggi in Svizzera l’eutanasia attiva diretta, ossia l’iniezione letale, è sempre punita, alla stregua di un omicidio. Più complesso il caso della eutanasia attiva indiretta, che consiste nel sottoporre il malato terminale a una terapia del dolore che può accelerarne la morte; e della cosiddetta eutanasia passiva, ossia la rinuncia a cure destinate a prolungare la vita. In questi casi è l’intenzionalità di uccidere, che deve essere stabilita dal giudice caso per caso, a determinare l’eventuale punibilità dell’atto.

Lo Stato non può uccidere
L’elaborazione di una casistica, se fosse possibile, non risolverebbe il problema, spiega a Tempi Bernardo Stadelmann, vicedirettore dell’Ufficio federale di giustizia e polizia. «L’incertezza giuridica – si legge nel rapporto – non risiede tanto nel sapere se l’eutanasia passiva e quella attiva indiretta siano ammesse o vietate, quanto piuttosto nel sapere chi, in quale momento e in base a quali circostanze, possa o debba decidere in merito».
Il legislatore deve fare un passo indietro, poiché se decidesse di disciplinare l’eutanasia fin nei minimi particolari, «potrebbe poi trovarsi – continua il rapporto – a dover stabilire a quali condizioni, ad esempio nel caso di neonati morenti, i medici possano o debbano decidere, insieme ai rappresentanti legali o ai genitori, se rinunciare alle terapie o sospenderle. In questi casi non è possibile richiamarsi alla volontà o alla presunta volontà del paziente». Tanto più, continua il documento, che «coloro che oggi invocano un disciplinamento dell’eutanasia passiva e di quella attiva indiretta nutrono talvolta il desiderio di legalizzare anche l’eutanasia attiva. A tratti prevalgono quindi le motivazioni politiche piuttosto che quelle inerenti lo Stato di diritto».
La Svizzera federalista sostiene che la vigilanza sui rischi di abusi in questo campo sia di competenza dei Cantoni, che dispongono già degli strumenti per esercitarla. La Svizzera rigorosa ritiene che un intervento diretto della Confederazione non farebbe che burocratizzare le forme di eutanasia. La Svizzera pragmatica sceglie il male minore della zona grigia nella legislazione, continuando a tollerare il diritto al suicidio e ad affermare il divieto assoluto di uccidere.

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