
Don Giussani e il suo giudizio ancora freschissimo sull’idolatria dei “puri”

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Nel 1993 stavamo – Luigi Amicone ed io – al Sabato. Fu l’ultimo anno del Sabato, l’unico foglio cartaceo a cogliere la truffa di quanto stava accadendo. In nome dell’onestà, fu disonestamente applicata la tortura contro alcuni, e la svendita del popolo intero, con i suoi beni, la sua memoria, l’idea stessa di pietas. Il Sabato, che aveva rivelato come la giusta lotta alla corruzione si fosse trasformata in scempio delle basi stesse della democrazia e del benessere, fu fatto in modo che chiudesse. Che cosa ci dettò allora quel giudizio? Di certo eravamo stati educati a non concepire la felicità come il risultato dell’eliminazione in nome della morale delle mele guaste. Ricordo una frase di don Luigi Giussani pronunciata in un raduno. Era una citazione di Giovanni XXIII che secondo il sacerdote lombardo descriveva perfettamente quel tempo di presunta pulizia, in realtà di cristallina ipocrisia di Boemia: «Ciascuno batte il pugno sul petto degli altri: tua culpa, tua culpa, tua maxima culpa».
Non era affatto assoluzione per i ladri, ma allargava lo spettro dei ladri. Ricordo sue citazioni di Péguy sull’onestà dei farisei, demolitori dell’umano sin dal 1992. Le ripetei in un dibattito sul tema alla festa di Cuore, con Michele Serra, Massimo D’Alema, Paolo Mieli e Diego Novelli. Fui naturalmente fischiato, chi mi guardò con più attenzione fu D’Alema. Finiamola con l’amarcord, malattia senile, e attingo direttamente alla fonte del giudizio, a cui propongo l’abbeverata comune. Pierluigi Battista condusse un’intervista a don Giussani, nei giorni tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996, proprio sullo stato dell’Italia, sugli occhi con cui guardare il nostro popolo. Battista – cui chiedo scusa qui per essere a mia volta caduto in un certo giustizialismo di comodo trascurando i suoi rimproveri – fece un lavoro eccellente, e don Giussani (ero presente) si preparò e rispose alle domande di un giornalista che stimava moltissimo, in quel modo unico, per cui si innamorava della persona che aveva davanti. Battista venne due volte a Milano per realizzarla. Uscì il 4 gennaio del 1996. La si può recuperare su internet. Trascrivo le frasi per me folgoranti che desidero condividere adesso, 21 anni e mezzo dopo, fresche come fontana di speranza.
“Giustizia”. In Italia, questa parola è quasi diventata sinonimo di “rivoluzione giudiziaria”. Quali conseguenze derivano da questa sovrapposizione?
«Una parte esigua di tutto il popolo si erige a maestro illuminato e a giudice di tutti. È il concetto caratteristico di qualsiasi tentativo rivoluzionario. Da questa pretesa deriva la sovrapposizione di una “classe” a tutto il popolo, l’esasperazione di un particolare che crea nel popolo l’immagine del magistrato come il “puro” per natura, come accadde tra i maestri catari e albigesi. È la fanatizzazione di un particolare, per cui facilmente si trascurano le leggi che il progresso della civiltà ha pensato proprio per salvare l’azione di questo particolare in rapporto all’utilità del tutto. Ma l’esaltazione di un particolare fa dimenticare le regole; si annullano diritti della persona e quasi ogni sentimento di pietà, assicurando una idolatria agli attori in scena. No. Tutto questo non annulla la necessità di indagare e punire i colpevoli. L’avere assolto, sia pure in modo manomesso, questo compito, è l’apporto di utilità realizzato dagli esponenti di questa “rivoluzione”».
Eppure lei ha lasciato intendere che la “rivoluzione giudiziaria” sia foriera di gravi sciagure. Perché Cl ha invitato a pregare la Madonna di Loreto e i Santi Patroni per la salvezza del nostro paese?
«La situazione è grave per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere e a salvarsi così dagli idoli. Questo smarrimento comporta una inevitabile, se non progettata, distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi. Perché riprendere, bisogna pur riprendere!».
Lei ha sempre incoraggiato chi vuole esprimere il proprio impegno politico. Oggi quali sono gli errori che suggerirebbe di non commettere?
«Qualsiasi lesione programmata o permessa alla libertà della persona oppure il tollerare qualsiasi limite posto alla creatività del singolo o del singolo gruppo o unità di popolo (…)».
Lei, quando pensa alla politica, insiste sull’idea di popolo. Perché, cos’è il “popolo” per lei?
«Un popolo nasce da un avvenimento, si costituisce come realtà che vuole affermarsi in difesa della sua tipica vita contro chi la minaccia. Immaginiamo due famiglie su palafitte in mezzo a un fiume che si ingrossa. L’unità di queste due famiglie, e poi di cinque, di dieci famiglie, man mano che si ingrossa la generazione, è una lotta per la sopravvivenza e, ultimamente, una lotta per affermare la vita. Senza volerlo, affermano un ideale che è la vita».
Che dolore tagliare la bellezza a fette. Ma il tutto spero riluca nel frammento.
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