
Don Verzè. Il Corriere ci rifila spazzatura e pretende che ci piaccia
«I documenti in esclusiva che queste pagine propongono ci portano nel cuore del san Raffaele. Davanti a don Luigi Verzè. Sono migliaia di file-audio di intercettazioni ambientali e telefoniche del dicembre 2005-luglio 2006 nell’ufficio del gran capo del san Raffaele, amico dei potenti».
Questo è l’incipit dell’instant-book curato da Mario Gerevini e Simona Ravizza, giornalisti del Corriere della Sera, uscito come supplemento allo stesso Corriere in questi giorni. Dunque, una rivendicazione piena ed entusiasta dell’uso, badate bene, neanche di carte di un’inchiesta in corso. Ma di un’inchiesta finita in nulla, nella quale don Verzè (per altro già passato a miglior vita) e il San Raffaele furono tirati in mezzo nel corso di indagini riguardanti «la fondazione della maga Ester».
Ecco, «migliaia di file audio e di intercettazioni ambientali» che, dopo essere state cestinate in sede processuale, e che dunque a rigore di ogni giustizia e logica in un cestino sarebbero dovute rimanere, vengono tirate fuori e servite al pubblico. Ecco, conversazioni private di cui sono state appurate la «non inerenza» nelle diverse fasi di giudizio (per altro già concluse da anni), sono servite al pubblico «togliendo il velo agli omissis» e con la sfacciata ammissione che «nulla di ciò è stato ritenuto penalmente rilevante. Benissimo». Benissimo un corno. È come se il direttore del Corriere della Sera, poniamo, fosse stato indagato e intercettato, e anni dopo l’assoluzione e la conclusione del procedimento Repubblica pubblicasse i suoi colloqui privati.
È come se ogni cittadino italiano vivesse sotto la spada di Damocle di intercettazioni a strascico che potrebbero lambirlo in ogni momento e, anche se le sue conversazioni non c’entrano nulla con le inchieste, un giorno potrebbero essere divulgate e usate contro di lui anche fuori da ogni processo e da ogni indagine sul suo conto.
È come se l’Italia fosse diventato un paese di origliatori, spioni, delatori, dove qualsiasi cosa c’è nel cassetto di un pubblico ministero, questa cosa può essere resa pubblica e utilizzata a fini politici, commerciali e quant’altro. Ma questo è giornalismo?
Già il taglia&incolla delle intercettazioni e la loro sistematica pubblicazione sui giornali per le inchieste ancora in corso è una prassi abbastanza ripugnante, benché perfettamente legale (purtroppo) in Italia. Come ebbe a dire Carlo Nordio, sostituto procuratore della Repubblica di Venezia, intervenendo a “La zanzara” di Giuseppe Cruciani, Radio24, mercoledì 17 febbraio 2010, «vedere pubblicate sui giornali le intercettazioni mi provoca profondo senso di ripugnanza, di disgusto, di vergogna. Non è da paese civile. La legge dovrebbe autorizzarne lo stretto uso investigativo e impedirne ogni divulgazione e pubblicazione. Le intercettazioni vanno relegate nella pattumiera giudiziaria e devono restare chiuse nella cassaforte degli organi giudiziari. Specie se si parla di migliaia di pagine di intercettazioni. Richelieu diceva: datemi una lettera e un paio di forbici e io ne farò impiccare l’autore».
Questo diceva Nordio a proposito dell’uso delle intercettazioni in chiave scandalistica, prima ancora che sia appurata la legittimità e la pertinenza delle stesse in un regolare processo. Ora, con l’instant-book della coppia Gervini-Ravizza, siamo oltre. Siamo allo sputacchio sul diritto di ogni cittadino a non vedersi privato della libertà di parlare liberamente, dove vuole e con chi vuole, senza correre il rischio di essere prima o poi sputtanato pubblicamente per ragioni neppure attinenti a un processo giudiziario in corso.
Costituzione, articolo 15. « La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Davvero la Costituzione è rispettata nella vasta letteratura, “giudiziariamente legale”, stile l’instant book del Corriere della Sera? Compagni e colleghi, ancora una volta si dimostra che “libertà di informazione” e “libertà” tout court non stanno nel puro e semplice rispetto della “legalità giudiziaria”. E come avesse ragione l’Ivan di Tutto scorre di Vasilij Grossman, uscito di galera dopo una legale e giudiziaria condanna subita sotto uno stato di politica, magistratura e giornalismo totalitari: «Un tempo pensavo che la libertà fosse la libertà di parola, di stampa, d’opinione. Ma la libertà è tutta la vita di tutta la gente».
Twitter: LuigiAmicone
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