Doninelli a Giudizio. Ma non è il Kant della Ragion Pura è il Giussani de La Repubblica ( e una noticina su TG5)
Caro Direttore, ti scrivo sotto la forte impressione suscitata in me dall’articolo di don Giussani, “Quella grande forza del Papa in ginocchio”.
Non voglio mettermi a commentare quello che ha detto Giussani. Voglio rilevare soltanto una questione di metodo che mi sembra riguardi da vicino tutti, ma soprattutto tutti noi che scriviamo sui giornali.
Quell’articolo è, lo dico subito, il più bell’articolo di giornale che abbia mai letto.
L’ho letto in autobus, e subito mi ha colpito per una ragione che può sembrare banale, ma che credo sia decisiva: la sua totale corrispondenza al fatto di cui parlava. E mi sono detto: ecco, questo è il Giudizio, quella cosa di cui parliamo sempre senza sapere mai esattamente di cosa parliamo.
Quell’articolo mi ha fatto capire esattamente che cos’è il Giudizio.
Il Giudizio è una parola adeguata all’esperienza, una parola che dice quello che l’esperienza ci ha attestato.
E’ una cosa semplice, ma oggi quasi impossibile.
Questa evidenza semplicissima mi ha fatto riflettere molto sul modo in cui io concepisco il mio lavoro di pubblicista (mi vergogno un po’ a dire intellettuale, anche se so che proprio questa è la parola giusta).
Il modo in cui noi diamo giudizi, o aspettiamo i giudizi di qualcun altro, tradisce spesso un’altra concezione del giudizio, dove il giudizio si riduce all’applicazione di un “discorso giusto”, di un “discorso corretto”. Diciamo di partire dall’esperienza, ma non è quasi mai vero questo – almeno tra giornalisti, ma non solo, perché la gente comune, il cosiddetto uomo della strada, anche cattolico, la pensa esattamente come i giornalisti, nel senso che sono stati i giornalisti a costruire la forma mentis dell’uomo della strada.
Il Giudizio non è innanzitutto (e sottolineo innanzitutto) un problema di angolatura di visuale, non è un problema di “linea”, non è nemmeno un problema di salvaguardia di quelle “due o tre cose” che sono da salvare. Se fosse solo questo, avrebbero ragione quei giornalisti – anche amici nostri – che ce l’hanno col Papa per la sua fissazione (così dicono) di chiedere perdono dei peccati della Chiesa, “anche” ironizza qualcuno “di quelli che non ha commesso”.
Questi giudizi partono infatti da un’idea “forte” di cristianesimo, che si contrapporrebbe a una linea troppo post-conciliare, con tutti gli errori tragici che la linea post-conciliare comportò ecc. ecc.
Ora, l’articolo di Giussani spazza via tutto questo cristianesimo “forte” (e anche quello “debole”) in nome di un altro principio, molto più concreto: l’adeguazione all’esperienza. Dopo due giorni in cui avevo letto di tutto sul gesto del Papa, dopo due giorni in cui tutti – da Dacia Maraini a Vittorio Messori – si sono sentiti in dovere di pontificare sul Pontefice; dopo due giorni in cui ho visto tutti gli intellettuali gettarsi (esclusi Magris e Lévy) come iene sulla carogna della Chiesa; dopo due giorni di parole sempre più intelligenti, sempre più perspicaci, sempre più dietrologiche, l’articolo di Giussani mi ha detto, semplicemente, cosa era accaduto domenica ai piedi della Croce.
Don Giussani mi ha informato, e io ho riconosciuto che le sue parole corrispondevano a ciò che è accaduto, all’esperienza che io avevo fatto di quell’evento – mentre per due giorni ho letto e udito altre parole.
Noi, caro Luigi, continuiamo a dirci e a sentire altre parole. Rischiamo talvolta del nostro, ma in nome di un discorso buono, magari di un cristianesimo migliore, non lo nego. Dare un giudizio su una cosa significa prendersi la responsabilità di dire le parole adeguate alla cosa, quelle che definiscono l’esperienza che noi facciamo di quella cosa.
(In tal senso, il titoletto “fatti non separati dalle opinioni” che tu usi è suggestivo ma non completamente esatto. Ci sono parole (e opinioni) che dicono i fatti, e parole che non li dicono perché si sovrappongono ai fatti, rendendoli invisibili, oppure vanno da un’altra parte.) Non c’era nessun “discorso a monte”, nelle parole di Giussani (parole di una lucidità, e talora di una ferocia impressionanti, perché Giussani conosce perfettamente tutto ciò che si è detto nell’occasione e sa anche perché lo si è detto), nessun “discorso giusto” da applicare, ma solo una corrispondenza col fatto. Parole che dicevano esattamente ciò che gli occhi avevano visto, gli orecchi udito e le mani toccato.
E’ il “sì, sì; no, no” del Vangelo.
Per essere così esatti ci vuole davvero il miracolo di un amore sprorpositato per la realtà.
Questa posizione di don Giussani è la più laica che si possa immaginare, perché è spalancata a tutto. Leggendo questo articolo, ho desiderato per me questo stesso sguardo lucido e libero, per il mio lavoro e per il modo di guardare i miei figli, i miei amici, tutto.
La positività dello sguardo non è un’opzione, ma una scansione della ragione, perché il positivo contiene la verità del tutto (anche del negativo), mentre il negativo non possiende nulla. Questo è un dato, non un’opzione.
Io spero che noi possiamo imparare molto da questo articolo, dal metodo usato, che c’illumina sul senso e sul valore dei giudizi che siamo chiamati a dare su quello che accade.
Scusa l’invadenza, ma credo che il metodo che Giussaani usa debba penetrare sempre più profondamente nel nostro lavoro.
Grazie per la tua grande amicizia.
Tuo Luca Doninelli Legenda. A. L’articolo a cui si riferisce Doninelli è stato pubblicato su Repubblica del 15 marzo. B. Per“Tutti noi che scriviamo sui giornali”si intendano i colleghi ciellini o ritenuti tali, o sospettati di esserlo o colti in flagrante lettura e discussione di un libro di don Giussani (pratica diffusa anche in redazioni atee e agnostiche sotto il nome di “Scuola di comunità”). Per i problemi connessi con ciò che potrebbe apparire come un dialogo tra iniziati su un giornale che insegue un filo di pensiero rigorosamente spartachista (non si sa se neo illuminista, ma sicuramente anarcoide) si veda la problematica tematizzata da Leo Strauss in “Scrittura e persecuzione”. C. Come tutti sanno, Doninelli non è un pubblicista, ma uno scrittore, un bravo scrittore che noi scommmettiamo diventerà un grande scrittore.D.Per rispondere avremmo bisogno di uno spazio che dovremmo togliere a te, caro amico e illustre collaboratore. E. Per il momento sappi che sottoscriviamo e che speriamo anche noi di imparare non solo da quell’articolo ma dai corsi sulla Chiesa del Giuss che all’epoca dei nostri studi in Cattolica abbiamo frequentato poco e male. F. “Se posso aggiungre qualcosa di mio” direbbe la nostra amica Hannah Arendt,“il pensiero inizia quando un‘esperienza di verità colpisce nel segno”. G. Chiediamo scusa ai nostri tanti lettori che ci scrivono (e in special modo a quanti di loro si sono trovati una lettera del direttore che li sollecitava a rinnovare l’abbonamento e che ci hanno gentilmente risposto fornendoci informazioni, consigli e osservazioni anche critiche utili al nostro lavoro) e ai quali rederemo conto, in pubblico e in privato, quanto prima.
Caro direttore, dopo i complimenti di rito che sintetizzo in un: “bravi! continuate così, vorrei sottoporvi un’osservazione e il relativo commento. Ieri sera (16 marzo) al Tg5 delle venti è stato fatto un lungo servizio sull’atteso astensionismo elettorale del prossimo 16 aprile. L’osservazione è che sembrava fatto apposta (pensiero condiviso da tutti i presenti) per convincere la gente a non votare con il subdolo messaggio: la politica ha deluso, i politici sono distanti e inarrivabili, chiunque si voti non cambia niente, se nessuno vota tanto vale che non vada neanche io…
Prima domanda: ma in periodo pre-elezioni non sono vietati i sondaggi elettorali? La dichiarazione di non-voto non è comunque una dichiarazione di voto? E allora? Se ci deve essere par condicio che ci sia per tutti, per chi si impegna come per i disfattisti…
Prima risposta: non votare è come dare il proprio assenso alla sinistra. Tutti allineati e coperti (anche se i tempi d’oro sono passati anche per loro) votano qualunque cosa, sempre e comunque… perfino Di Pietro… se non possono aumentare i loro voti tendono a ridurre i voti in generale, e basandosi il tutto sulla percentuale dei votanti, il gioco è fatto. E’ difficile dare ragioni per votare, mentre è molto più facile dire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Voi che dite, esagero? A me non sembra… nelle elezioni del 16 aprile si gioca molto, alcuni giocano tutto. E i nemici sono ovunque e non necessariamente di fronte, e così ci si trova a combattere con chi vota contro perché lo dice la mamma, con chi non vota perché tanto cosa vuoi che serva, con chi non fa campagna elettorale perché tanto si vince a mani basse (e qui i gesti scaramantici si sprecano…). Buon lavoro.
Paolo Covassi, San Donato Milanese Letto, approvato, sottoscritto.
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