
Dopo Bibi Barak
Tel Aviv. Anche se il risultato sembra essere scontato, con tutti i sondaggi che danno il candidato laburista Barak nettamente in vantaggio su Netanyahu e sulla coalizione di partiti di destra attualmente al governo, l’attesa per le elezioni politiche di lunedì 17 maggio è grande. Ma a differenza di quanto ci si aspetterebbe, non sono affatto il processo di pace, né la sicurezza di Israele – classici leit-motiv delle campagne elettorali nello stato ebraico – i temi che monopolizzano il dibattito, bensì gli scandali economici che hanno coinvolto i partiti dell’attuale maggioranza.
Ed ecco la fondamentale ragione che milita a sfavore dell’attuale esecutivo e che fa prevedere nei sondaggi la sconfitta dell’attuale Primo ministro: una sorta di “mani pulite” in salsa israeliana. Qualche settimana fa Arie Deri, ministro degli interni e esponente dello Shas (partito religioso di sefarditi integralisti scomodo alleato di Netanyahu), è stato infatti condannato a quattro anni di carcere per aver utilizzato fondi pubblici per il finanziamento di opere realizzate dal suo partito. Di queste “opere pie” ne avrebbero tra l’altro usufruito anche gruppi palestinesi e islamici fondamentalisti che, come è noto, sono nemici dichiarati dello stato ebraico, ma con i quali, alcuni ambienti ebraici ultraortodossi, avrebbero stabilito da tempo una sorta di patto del diavolo, ottenendo, i partiti integralisti ebraici, il voto di quelli islamici residente in Israele in cambio degli aiuti economici e dei sostegni politici (come nel caso denunciato dalle autorità cristiane di Gerusalemme che hanno sollevato il caso di un presunto traffico di 50mila “voti di scambio”; denuncia che ha chiamato in causa direttamente Netanyahu, il quale, in cambio del consenso islamico alle elezioni, si sarebbe dichiarato disponibile ad appoggiare la rivendicazione dei musulmani integralisti di Nazareth che vorrebbebro erigere una moschea a ridosso della Basilica dell’Annunciazione).
La difesa dello Shas, secondo cui la religione è al di sopra della legge, ha scatenato durissime reazioni dell’establishment laico (circa l’85% degli israeliani non sono religiosi osservanti e anche nel restante 15% gli ultraortodossi sono in minoranza) ed eccitato un sentimento popolare di avversione contro la minoranza ultraortodossa, che per motivi religiosi è esente dal servizio militare e i cui membri attingono all’erario pubblico per il finanziamento di scuole e istituti di studio della Torah. Il clima sociale e politico è divenuto talmente insofferente che, cosa impensabile fino a pochi anni fa, recentemente si è costituito un nuovo partito (“Il Cambio”) il cui scopo dichiarato è proprio quello di abolire le garanzie e privilegi di cui godono gli uitraordossi.
La seconda accusa che viene mossa a Netanyahu e al suo litigioso e disomogeneo governo, è la disinvoltura nel cambiare opinioni e alleanze. Circa il 20% della popolazione attuale è costituita da russi ed ebrei dell’est europeo immigrati in Israele dopo il collasso dell’Urss e il crollo del comunismo nei paesi satelliti dell’impero sovietico. Si tratta ormai di una parte significativa della società israeliana e il cui consenso è divenuto fondamentale per vincere le elezioni. Il rimprovero mosso al premier e al suo partito, il Likud, è di aver raffreddatto i rapporti con il tradizionale alleato americano e aver volto in questi ultimi mesi le attenzioni al mondo ex-sovietico e alla cura dei rapporti diplomatici con la Russia per ragioni di cinico calcolo elettorale.
Per contro la destra accusa i laburisti di cavalcare la tigre del processo di pace, dimenticando il primo obbiettivo politico che ha caratterizzato tutti i governi a partire dalla fondazione dello stato ebraico: la sicurezza di Israele (uno dei punti di forza di Netanyahu è che durante il suo mandato gli attentati sono effettivamente diminuiti). Il leader laburista Barak viene inoltre accusato di vivere chiuso in una torre d’avorio senza capacità di dialogo con i ceti medio bassi. E in effetti gli elettori laburisti, in prevalenza di origine askhenazita (cioé di provenienza europea), appartengono in gran parte alle classi più istruite e più occidentalizzate del Paese.
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