
Dove stiamo andando? Provate a chiederlo a Pinault
L’uomo della strada azzarda qualche incerto passo avanti, ché forse ha visto male. Ragiona che, certo, si osserva meglio da vicino e una volta vicino arriccia invece il naso, perché al dubbio di aver perso qualche diottria subentra in fretta il presentimento che qualcuno voglia farsi due risate alle sue spalle. Alla fine, il moto di insofferenza è garantito e, tra l’indignato e il desolato, non può proprio fare a meno di chiedersi perché mai dovrebbe leggere almeno tre libri per comprendere il significato di quello che ha davanti.
Non si sa quanti disarmati ‘uomini della strada’ (leggi: non propriamente ferrati sulla destinazione dell’arte del nostro tempo) si siano posti questa domanda varcando le soglie di Palazzo Grassi a Venezia, dove è in corso, fino al primo ottobre, una mostra d’arte contemporanea tanto perfetta nella qualità delle opere (223 selezionate dalla curatrice aggiunta del Guggenheim Museum di New York, Alison M. Gingeras, tra le duemila della Collezione François Pinault) quanto drammatica per il messaggio nichilista e per l’effetto destabilizzante (per non dire di disgusto) che esse suscitano nel visitatore comune.
In effetti, guardando le opere d’arte del secondo dopoguerra preferite da Monsieur Pinault e raccolte sotto il titolo significativo di ‘Where Are We Going?’ (‘Dove stiamo andando?’), emerge immediata la visione di un mondo muto, dalle superfici monocrome, come nelle tele di Brice Marden, Robert Ryman, Mark Rothko. Accanto, le strutture minimaliste in ferro zincato di Donald Judd (1928-1994) – eloquenti come il monolite che volteggia precipitando da un altro mondo in 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e precedenti figurativi delle più attuali tendenze del design – attestano bene come, a Palazzo Grassi, l’arte intercetti lo spirito del nostro tempo. Uno spirito non più capace di rendere visibile l’invisibile e un’arte che a sua volta sembra domandare: il pianeta terra del XXI secolo è ancora la casa dell’uomo oppure il suo cimitero?
Dai tagli di Lucio Fontana ai bianchi (Achrome) di Piero Manzoni, fino alle espressioni di Arte Povera di Mario Merz, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Giulio Paolini e gli altri compagni di strada – tutti italiani e ben rappresentati nella collezione dell’imprenditore francese -, il linguaggio dell’arte visiva si è fatto autistico, nei casi più felici ermetico, talora evocativo, ma sempre più spesso autoreferente, alienato e lontano dalla sensibilità e dall’esperienza della gente comune. Eppure chiarisce a Tempi François Pinault, è proprio per questa gente che ha voluto esporre a Venezia parte della sua collezione: «Per restituire alla società ciò che mi ha donato. Per condividere con i visitatori tutte le emozioni che queste opere hanno provocato in me, nello spirito di far conoscere e amare la creatività dei nostri tempi».
Bretone doc, classe 1936, segno zodiacale leone: Pinault è un autodidatta che ama leggere e, soprattutto, osservare. Il 30 aprile ha aperto al pubblico le porte di Palazzo Grassi spa (sua all’80 per cento dal 2005) per mostrare un decimo della sua sbalorditiva collezione, dopo il restauro portato a termine in tempi record dall’architetto giapponese Tadao Ando.
Inutile dire che di fronte alle ‘cose mai viste prima’ dei tempi odierni, l’impasse dei ben pensanti retrò è quasi un fatto scontato. Del resto, già a Parigi gli Impressionisti non erano capiti: fu soltanto grazie allo spirito illuminato della moglie di Napoleone III che vennero esposti nel Salon des refusées, al Petit Palais; poi toccò a Picasso e alle avanguardie del Novecento: poco apprezzati dai borghesi del tempo, ma tagliati fuori anche dal mercato e con esordi costellati di stenti. Anche oggi l’arte sperimentale continua a non essere capita dalla ‘gente comune’, ma opere provocatorie di giovani come Damien Hirst e Maurizio Cattelan sono pagate milioni di euro dal sistema dell’arte. Perché? Secondo Monsieur Pinault questo dipende dal fatto che «la nostra epoca vive uno sviluppo di mezzi di comunicazione mai visto prima e questo comporta tutti i rischi del caso». Di fronte all’arte, «sinonimo di innovazione, di rottura», non si può che «rendersi sempre aperti e disponibili al nuovo, liberarsi dai pregiudizi e non reagire rifiutando in blocco tutte le opere che ci sorprendono, destabilizzando le nostre certezze». Pinault sa benissimo che non tutta la produzione artistica contemporanea passerà alla storia e che soltanto il tempo scremerà i capolavori dalle opere di minore interesse, ma difende Maurizio Cattelan, «un artista corrosivo che può risultare molto scabroso. Davanti alle sue opere, come Il Papa colpito da un meteorite, o Him (la scultura di Adolf Hitler messo in ginocchio come un bambino, ndr) si può avere uno choc. Ma è un grandissimo artista, è un erede di Duchamp».
Con la mostra a Palazzo Grassi, Pinault definisce dunque il suo punto di vista, forse di regime, certamente allineato a quello del gruppo egemonico cui appartiene (e dal quale desidera farsi accettare) e non nasconde niente di che cosa è arte per lui oggi: teche di vetro con quarti di mucca in formaldeide e con scheletri di animali (Damien Hirst), gatti imbalsamati su tamburi giganteschi (David Hammons), un maialino rosa in silicone e fibra di vetro che respira collegato a una macchina elettrica (Paul McCarthy), una struttura di ghiaccio, piombo e frigorifero come progetto di vita (Pier Paolo Calzolari). Opere esposte per essere, comunque, un bene per tutti: «Acquistare opere d’arte è come abbattere barriere di lingua e di razza, per me l’arte è una forma di comunicazione e di religione» confida l’imprenditore del lusso mondiale. I proprietari dei nasi arricciati a Palazzo Grassi faticherebbero a dargli ragione: perché l’arte visiva contemporanea non è un valore condiviso da tutti? «Sarebbe terribile – replica Pinault – considerare l’arte un’esperienza che appartiene al passato e alla quale il presente e il futuro non hanno nulla da dire di nuovo. Riaprendo Palazzo Grassi la mia ambizione è quella di riavvicinare una parte di pubblico all’arte del nostro tempo, di invitarla ad aprire il suo spirito e la sua sensibilità a nuovi orizzonti. Questo mio proposito trova un’eco particolare soprattutto qui a Venezia: una città spettacolare e una passerella continua».
Venezia, appunto: città delle sfide, del sogno, della volontà e della cultura. Ma forse il punto della questione è proprio su che cosa sia oggi cultura. Di certo, l’arte contemporanea non è più un valore condiviso perché è successo qualcosa. L’arte ha smesso di essere l’espressione di un popolo, come accadeva nel Medioevo, con le cattedrali gotiche. Mai visti nasi arricciati innanzi a una cattedrale gotica.
Where Are We Going? Where Do We Come From? Is There a Reason?
Damien Hirst (britannico, 1965). «Dove stiamo andando? Da dove veniamo? C’è una ragione?». Se lo chiedeva già Paul Gauguin, all’alba del Modernismo e agli inizi del terzo millennio gli fa eco Damien Hirst. Che qui evoca un mondo asettico e uno scenario da catastrofe: il pianeta terra del XXI secolo è ancora la casa dell’uomo oppure il suo cimitero?
Teche in vetro e acciaio inossidabile con scheletri di animali, cm 204 x 365 x 365 (2004)
Dead Troops Talk
Jeff Wall (canadese, 1946). Sottotitolo: Visione dopo un’imboscata dell’Armata Rossa vicino a Moqor, Afganistan, inverno 1986. L’immagine è la ricostruzione di un documento storico fatta in un set fotografico sei anni dopo l’accaduto, quando l’esercito sovietico si era ritirato dall’Afghanistan da circa tre anni e l’Urss, disgregatasi nel ’91, era il fantasma di se stessa. È un capolavoro che manifesta l’incongruenza di un fatto realmente accaduto con l’incongruenza temporale del mezzo usato. Secondo la procedura di disgiungere e poi riassemblare, l’artista utilizza sedute di posa successive, un frammento alla volta e distribuisce le figure come attori di una fiction.
Fotocolor in lightbox, cm 229 x 417 (1992)
Untitled (Monsieur François Pinault)
Piotr Uklanski (polacco, 1968). Un teschio a colori accoglie il visitatore sullo scalone di Palazzo Grassi. È il ritratto di Monsieur François Pinault, realizzato con un metodo innovativo di imaging termografico. L’artista non ha sottoposto il suo mecenate a interminabili sedute davanti a un cavalletto, come si faceva in antico, ma a una Tac, eseguita nel 2003 nello studio di un dottore parigino. Poi ha rielaborato la radiografia disponendo il cranio e un omero con le ossa incrociate, come nella bandiera dei pirati e come nel simbolo del veleno.
Fotografia a colori, cm 93,5 x 126,5 (2003)
Mechanical Pig
Paul McCarthy (americano, 1945). Davanti a questa visione tornano alla mente i fantasmi del Golem, le palestre di ingegneria genetica, la morte apparente degli embrioni congelati: premonizioni di un futuro prossimo in cui l’umanità, spingendo al massimo l’acceleratore sulla pretesa di libertà assoluta, rischia di perdere anzitutto se stessa e la propria identità, di cui ha smarrito l’origine.
Silicone, platino, fibra di vetro, metallo
e componenti elettrici,
cm 101,6 x 147,3 x 157,5 (2005)
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