Dove va il Veneto se non sa dove andare?

Di Gianluca Salmaso
16 Novembre 2016
Gianluca Salmaso
Industriali e politici alla finestra in attesa di chiarirsi sul da farsi. Qualche sconquasso, come a Padova, ma permane l'immobilismo
Una recente immagine di Luca Zaia e Matteo Salvini ANSA/ ETTORE FERRARI

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Tanto tuonò che alla fine non piovve. O meglio, tuonò a Padova, piovve sulla minuscola Merlara, a Granze e persino a Jesolo che con Padova notoriamente centra poco o nulla. Salvini l’aveva detto: «Se davvero due consiglieri di Forza Italia pensano di mandare a casa il sindaco di Padova Massimo Bitonci vuol dire schierarsi contro tutta la Lega e mettere in discussione le alleanze a ogni livello» e i suoi delegati veneti l’hanno preso alla lettera: nessuna alleanza con Forza Italia alle comunali del 2017 in nessun comune del Veneto, dove pure qualche partita si poteva giocare anche se di risibile interesse politico.

Cosa sta succedendo in Veneto? Per gli appassionati di questioni del Nord Est d’Italia la domanda si pone da mesi, se non da anni, e nessuno si è davvero stupito che proprio a Padova sia ricominciata una guerra che era iniziata nel 2012 a Treviso con la sconfitta del leghista di ferro Giancarlo Gentilini e proseguita poi con l’espulsione di Flavio Tosi dalla Lega e gli arresti e successivi patteggiamenti che hanno decapitato l’establishment veneto.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Se, politicamente parlando, siamo ormai prossimi all’anno zero vaticinato dal giornalista del Mattino di Padova Renzo Mazzaro, il primo ad avvistare l’onda di scandali che stava per infrangersi travolgendo la Regione, economicamente e umanamente parlando, il buio si fa profondo.

Il Veneto che a tentoni sta provando a rimettersi in moto non sa dove andare, cosa fare, che modello seguire. Dopo decenni di “piccolo è bello”, un intero sistema di produzione e distribuzione è stato seriamente compromesso da delocalizzazione, crisi, grande distribuzione e, soprattutto, mancata innovazione. In Veneto si è fatto il Passante di Mestre ma ci vogliono ancora due ore e mezza di treno per raggiungere Milano da Venezia e due ore e venti minuti per collegare Belluno con la Laguna. Mancano le infrastrutture digitali, mancano le infrastrutture finanziarie locali falcidiate da una crisi di cui Veneto Banca e Popolare di Vicenza sono solo la punta dell’iceberg e manca, soprattutto, una classe dirigente dotata di una solida visione e di un solido elettorato.

Mancano i voti, e Salvini lo sa benissimo. Mancano dove servirebbero e soprattutto mancano dove ci sono sempre stati, a riprova di ciò basti vedere come la minaccia di uscire dalla giunta Brugnaro, a seguito delle dichiarazioni del sindaco di voler votare sì al referendum del 4 dicembre, sia caduta nel vuoto. La Lega a Venezia ha tre consiglieri comunali, pochi, e Brugnaro non è tipo da fare troppi compromessi o cedere a ricatti, tanto che la sua risposta alla minaccia di Salvini è muscolare: «Paura non ne ho, mi pare evidente. Mi spiacerebbe che le cose venissero complicate dalla partigianeria partitica. Io sono un uomo libero».

Venezia sta vivendo una centralità politica che non le si riconosceva da diversi lustri. Il sindaco Brugnaro è un croupier di rara bravura, mischia le carte con gesti talmente veloci che rende difficile seguirne i movimenti. Si butta, ci prova e per salutare l’elezione di Trump dichiara al Corriere di volere «un grande summit a Venezia tra i presidenti americano e russo. Qualcosa che inauguri il nuovo clima» ma non si tira indietro neppure quando lo provocano dicendo che ambisce a guidare il centrodestra: «Nooo, scherza… Però non mi volterò più dall’altra parte. Io mi sono candidato a Venezia perché non volevo che cadesse in mano ai centri sociali. E ora non mi volterò più. Se potrò dare una mano, io ci sono».

Dopo il sindaco filosofo a Venezia è stato eletto quello corsaro, decisamente più in linea con la storia cittadina. Bitonci non è Brugnaro, ormai è evidente a tutti. Ci ha provato in ogni modo l’ex sindaco di Padova ad ergersi a paladino della controcultura in opposizione a quella che a Padova è ostaggio della sinistra, ma se Brugnaro a Venezia è balzato all’arrembaggio mettendo all’indice i libri gender nelle scuole guadagnandosi sia stima che riprovazione, Bitonci ha organizzato una convention letteraria che al massimo ha raccolto sbadigli. E se il padovano si è impantanato sulla realizzazione del nuovo ospedale, il secondo non ha paura di turarsi il naso votando sì alla riforma costituzionale in cambio di un patto per Venezia siglato col Premier, perché la Serenissima sprofonda in acque torbide e se arriva un salvagente bisogna afferrarlo.

È la realpolitik, bellezza, e in Laguna i problemi sono tali e tanti che non si può andare per il sottile. Cosa che, comunque, al sindaco non è mai riuscita semplice e ne sanno qualcosa i Cobas che alla loro velata minaccia di ritrovarsi al tavolo delle trattative si sono sentiti rispondere a muso duro dal primo cittadino in pieno consiglio comunale: «Al tavolo delle ombre!», ci vediamo al tavolo dell’osteria.

Realpolitik per realpolitik, in Veneto nessuno vuol fare davvero il primo passo. Salvini e la Lega non vogliono correre da soli perché sanno che i voti di Zaia sono solo di Zaia e non si riescono a replicare senza il contesto generale. Non vuole muoversi Forza Italia, troppo presa da una lotta intestina in cui si contrappongono caporali e marescialli di un esercito senza truppa né generali. Alla finestra rimangono, non si sa per quanto, Partito Democratico e Cinque Stelle, in attesa di un chiarimento generale e di supporti esterni. È il dramma di una regione schiacciata tra altre realtà più dirompenti, vuoi perché economicamente più forti o per il loro statuto speciale, che stenta a trovare una propria dimensione e a contenere le spinte più varie, compresa quella forse più interessante di un pan-regionalismo con annesso ritorno in auge della formula amministrativa del Triveneto.

Attendisti sono anche i grandi imprenditori e le classi produttive, che si sbilanciano ma non troppo. La sbornia da start-up coinvolge tutti i settori, si organizzano meeting, incubatori, officine, farms. È il tentativo di una generazione di affermarsi in proprio come fecero i padri e i nonni. Quando il mondo scopriva il mito di Steve Jobs che inventava l’informatica in un garage, in Veneto schiere di “scarpari” si erano già comprati la Bmw tranciando pelli e orlando tomaie di scarpe nello scantinato di casa e la start-up è la versione con su una mela bianca di questo grande miracolo chiamato nord est. Ad un convegno organizzato da Ca’ Foscari a cui partecipavano il gotha di questa nuova classe imprenditoriale così smart e liberal, la scena però è stata presa da un vecchio dinosauro dell’imprenditoria tradizionale, uno invitato un po’ per simpatia e da contrapporre ai nuovi giovani rampanti, gli bastò una battuta: «Troppe tasse, poco credito. Basta tasse! E datevi una mossa!». È il Veneto, bellezza.

Foto Ansa

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