
Duemila anni di resistenza armena
Duemila gli anni di storia della civiltà armena. Duemila anni che hanno visto più volte l’Italia e l’Armenia co-protagoniste della storia antica e precontemporanea, sia in aperta contrapposizione guerresca sia, più frequentemente, in un rapporto di intima simpatia, dettato da regioni pratiche o spirituali. Nel 2001, inoltre, saranno trascorsi 1700 anni dalla proclamazione del cristianesimo come religione ufficiale della nazione armena, che ha determinato la nascita di una delle più significative espressioni delle arti e della cultura a cavallo tra Occidente e Asia, entro un’area che, per quanto geograficamente impervia, risultava da tempo uno snodo strategico e commerciale di primaria importanza lungo le vie di comunicazione fra il Mar Nero e il Mar Caspio. Non a caso, grandi conquistatori del passato, come Dario I, sovrano di Persia fra il 522 e il 485 a.C., e Alessandro Magno (356-323 a.C.), erano stati solleciti nell’includerne il territorio entro i rispettivi imperi, mentre Roma, dopo i primi scontri in età repubblicana, provocati da Pompeo tra il 67 e il 66 a.C., preferirà, in linea di massima, appoggiare i sovrani locali, per averli alleati o, quanto meno, non ostili, dovendo fronteggiare l’impero partico, tanto deciso a espandersi verso Occidente, quanto l’Urbe nell’Asia Minore e oltre.
Alleati di Roma, vittime dei musulmani È in questo quadro che s’inserisce il famoso episodio che vide il re Tiridate, fondatore del ramo armeno della dinastia degli Arsacidi, recarsi a Roma nel 66 d.C. con un seguito di un migliaio di sudditi, per farsi incoronare davanti a loro dal “divino” Nerone. Ma vi era stato e vi sarà ancora ben altro, nella storia del popolo armeno, giusto come illustra la rassegna “Roma Armenia” allestita nel Salone Sistino dei Musei Vaticani e visitabile fino al 16 luglio (tutti i giorni feriali, dalle 8,45 alle 15,45, più l’ultima domenica di ogni mese, con lo stesso orario). Esposizione, dunque, che giunge quanto mai opportuna, per ricordarci che sono esistiti lungo i secoli trascorsi e che potranno rinnovarsi domani, rapporti privilegiati tra la nostra Penisola e la nazione che, ai piedi del Caucaso, ha conosciuto troppe volte il passo degli eserciti stranieri e con un seguito di massacri ogni volta più feroce: dalla invasione araba del 642 d.C. all’occupazione bizantina iniziatasi nel 1045; dal cruento arrivo dei mamelucchi d’Egitto nel 1375 alla calata ottomana del 1473 e susseguenti conflitti con la Persia. Eventi, come è ovvio, puntualmente seguiti da una serie di diaspore man mano più consistenti e con Roma, Livorno, Genova e Venezia, quali principali destinazioni, dove le comunità armene, sia laicali che monacali, potevano contare su una spontanea accoglienza delle autorità e delle popolazioni locali, trattandosi di genti di fede cristiana, e per lo più di confessione cattolica (ma non erano assenti i monofisiti, fedeli ai dettami della Chiesa nativa), che, a partire dalla fine del XIII secolo, dovettero fuggire prima dalle stragi dei Mongoli e poi dalle persecuzioni musulmane.
Genocidio armeno, cose da turchi Né le cose mutarono di molto con l’avvento dell’età contemporanea. Basti pensare che, in violazione degli accordi stipulati nel 1878, la Turchia del Sultanato ottomano, come quella repubblicana e moderna dei “Giovani Turchi”, non vollero mai concedere alcuna reale autonomia alle comunità armene, presenti nel territorio che esse governarono successivamente, tanto da soffocare più volte nel sangue ogni movimento di contestazione o di ribellione: nel 1894/96 e nel 1909, per la precisione. Infine, nel 1915, perpetrando un vero e proprio genocidio, al quale parteciperanno anche i Curdi, con l’uccisione selvaggia e preordinata di un milione di persone, se non più. Di poco diverso, d’altro canto, il destino delle comunità di quella ch’era diventata l’Armenia russa, a seguito della vittoria dell’Impero zarista sulla Persia, tra la fine del secolo XVIII e gli inizi del XIX. In questa area, difatti, dal tramonto dello scorso secolo e fino alla morte di Stalin, le deportazioni nei gulag furono ricorrenti, ancorché volte, in prevalenza, a decapitare i ceti intellettuali e il clero. Tragica spirale che suggerì allo scrittore francese Daniel Rops (1901-1965) di definire la nazione armena come “sanguinante e vivente”. Una definizione che, purtroppo, non ha perso del tutto di attualità, in anni più recenti. Basti pensare ai reiterati scontri, dalla fine del 1991 a tutto il 1994, tra l’esercito armeno e le truppe dell’Azerbaigian, per il controllo della regione del Nagorno-Karabach. Ebbene, nella rassegna allestita nei Musei Vaticani, la storia che si è cercato di abbozzare poco sopra trova uno splendido riflesso, anzi una più compiuta illustrazione. Basti ricordare che vi sono inglobate vere rarità quali: il messaggio a Papa Innocenzo IV del Supremo Patriarca armeno, contenente la sua professione di fede; l’ideale ritratto, eseguito nel 1776, dell’archimandrita Mesrop Mashtots, ideatore dell’alfabeto armeno agli inizi del V secolo; la predella, del 1520 circa, di Francesco d’Ubertino, detto il Bachiacca (1494-1557), commemorativa di una delle prime persecuzioni subite dagli armeni a causa dell’ardente fede cristiana. Oltre, naturalmente, altri documenti diplomatici, incisioni, reliquiari, oreficerie, carte geografiche e un illuminante catalogo, a cura di Claude Mutafian e pubblicato con bella cura dalle edizioni De Luca.
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