Edith Stein. Sulla storia di un’ebrea

Una proposta interpretativa del ruolo che la santa ha assunto nel dibattito sulla cultura ebraico cristiana. Con un contrappunto

Non so perché il mio amico Vittorio abbia chiesto proprio a me una recensione del suo volume su Edith Stein (Vittorio Robiati Bendaud, Edith Stein. Sulla storia di un’ebrea, San Paolo 2022), non fosse appunto perché la nostra amicizia, nata proprio intorno a Tempi, ha una sano e oggi raro vigore intellettuale. In effetti, non sono un esperto conoscitore della biografia e della filosofia di Edith Stein, anche se qualche anno fa ho tradotto dal tedesco un saggio sul concetto di intersoggettività nel suo pensiero e ho avuto così modo di confrontarmi con lei, fenomenologa discepola di Edmund Husserl, su un tema tanto importante.

Del resto, con una certa umiltà, anche Vittorio all’inizio di questo suo libro si definisce come un non esperto di Edith Stein, benché, poi, citi con perizia fonti biografiche e documentarie, specificando che la sua non vuole essere una biografia della santa, uccisa dai nazisti ad Auschwitz, ma solo una proposta interpretativa della sua figura e del ruolo che essa ha assunto, in ogni caso nel dibattito sulla cultura ebraico cristiana.

La teologia della sostituzione

In effetti, il volume è sostanzialmente centrato sulla condivisibile preoccupazione che il caso Edith non offra un ulteriore pretesto per quella che Bendaud chiama la «teologia della sostituzione», espressione con cui si intende l’idea che il popolo di Israele sia stato ripudiato da Dio e sostituito dalla Chiesa, quasi che Dio possa ritirare la propria «benedizione», con tutte le ricadute storiche gravissime che ne sono seguite sulle relazioni tra ebrei e cristiani. È un’idea che può ritrovarsi formulata in tante sfumature, più o meno accentuate, ma che ha segnato le relazioni ebraico-cristiane e anche il contesto in cui avvenne la conversione di Edith Stein, che, peraltro, «nonostante i tradizionali insegnamenti della Chiesa, non divenne un’odiatrice di sé. Anzi, al contrario, rivendicò sempre con orgoglio e con affetto la propria appartenenza alla famiglia Stein-Courant e, dunque, al popolo ebraico» (cit. p. 65).

l caso Edith Stein, ripete più volte l’Autore, non può essere il modello del dialogo ebraico-cristiano perché, in realtà, Edith approdò al cristianesimo non dall’ebraismo, ma da un agnosticismo impregnato di senso della ricerca filosofica e di ansia religiosa, per di più in un contesto in cui non pochi intellettuali mitteleuropei di estrazione askenazita sentivano e mostravano – come da molti esempi citati – un bisogno di assimilazione alla grande cultura tedesca di quel tempo, in un sorprendente e storicamente tragico gioco di fascino e respingimento.

Non sono venuto per abrogare la legge

Detto questo, non posso non nascondere qualche mia personale difficoltà nel trovare in queste pagine un giudizio, a mio parere troppo duro, su due figure storiche importanti del cattolicesimo novarese e italiano, quali sono stati il card. Corti e madre Canopi, cui l’Autore, interpretando in maniera troppo rigida alcune loro affermazioni, imputa un cedimento ai «luoghi comuni» della succitata teologia della sostituzione.

Vittorio ha tutte le ragioni per temere un siffatto modello teologico che, va detto sia pur molto concisamente, non coincide di certo con il principio evangelico espresso in Matteo 5,17s.: «Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti; io non sono venuto per abrogare, ma per portare a compimento. Perché in verità vi dico: Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure un iota o un solo apice della legge passerà, prima che tutto sia adempiuto».

Il Nuovo e l’Antico

La «sostituzione», a cui fa riferimento Vittorio con legittima e giustificata paura, nella storia del pensiero e delle eresie cristiane porta il nome di «marcionismo», una corrente radicale, condannata dalla Chiesa che, diffusasi tra il II e il V secolo d. C., rifiutava la Tanak, la Bibbia o ebraica, Antico Testamento, ritenendolo appunto «sostituito» dal Nuovo. L’Antico, invece, – e da qui la condanna di eresia – è per definizione, ciò su cui, e non contro cui, si edifica il Nuovo, ma il problema non è certamente circoscritto a quei secoli lontani: una forma di marcionismo si ritrova purtroppo lungo tanta parte della storia della Cristianità e sembra riemergere, quasi paradossalmente, in un filone della teologia contemporanea, oltre tutto di matrice «progressista» (quello ultratradizionalista è già ben noto di suo).

Il libro di Vittorio Robiati Bendaud può piacere o non piacere; potrà forse risultare polarizzante, forse anche troppo, ma introduce argomenti con cui urge confrontarsi e, soprattutto, interroga con forza e fa pensare. Che è poi quel che scrive nella sua bella Postfazione Sr. Cristiana Dobner, lei sì esperta tanto di Edith Stein che di dialogo ebraico-cristiano: «I cristiani che leggeranno questo saggio dovranno aprirsi a un ascolto che, immediatamente, non risulterà familiare o forse anche inopportuno, ma al di là del convenirvi, non potranno negare come nella Patrona d’Europa Israele colga indizi, atteggiamenti e parole che per la stessa Stein contenevano un desiderio e un proposito che, oggi, pur mantenendo la postura interiore e realmente fattiva, andrebbe formulato in altri termini».

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