
Educare è una guerra, non basta il bon ton
«Credo che la maggioranza di noi resti allibita e incredula davanti ad affermazioni simili: ma come, l’educazione è un problema?». Stando alle “affermazioni” dell’Appello sull’educazione sì, la scrittrice Paola Mastrocola non si esime dal reagire sulla Stampa (27/01) a ciò «che mi pare oggi la filosofia trionfante, quella del laissez faire». Tempi ha girato la provocazione ad adulti e figli.
Antonio Polito, direttore del Riformista
Ho firmato quell’appello, ne discende che una coscienza laica può avvertire con la stessa drammaticità di don Giussani l’enorme responsabilità che grava su noi adulti, e che abbiamo in gran parte declinato: educare i nostri figli. Soprattutto, aiutarli a farsi un’idea del bene e del male; anzi, basterebbe che si facessero semplicemente l’idea che il bene e il male ci sono e sono definibili. E se non lo facciamo più non è mica per il Sessantotto, ma più banalmente per pigrizia, per soldi, per tv. Educare è innanzitutto un’opera di esemplificazione. Non funziona con le parole, con i precetti, con le prescrizioni, o almeno non solo. Avviene fondamentalmente con l’esempio. Bisogna essere buoni per avere figli buoni, generosi per averli generosi, rigorosi per averli rigorosi. Non tutti riusciranno col buco, ma nessuno ce la farà senza esempio. Ecco perché è così difficile, soprattutto ora che i maestri e la scuola non lo fanno più in nostra vece.
Giovanni Cominelli, ex leader del ’68
Sì, è vero: il ’68 ha spezzato la catena pedagogica che si era costruita a partire dalla società agrario-industriale e poi dalla rivoluzione industriale, lungo gli anelli generazionali. Mio bisnonno, mio nonno, mio padre, i suoi figli hanno condiviso gli stessi valori-guida, che presiedevano all’educazione dei figli, e persino, cum juicio, i metodi: qualche sberla necessaria e dei metaforici “a letto senza cena”. “Senza cena”: senza tv, senza uscire, senza calcio. La crisi dei fondamenti che ha segnato il ‘900 ha raggiunto, alla fine, la zona solo apparentemente più al riparo dai mutamenti economici e tecnologici, quella delle relazioni familiari. E la rivoluzione biotecnologica più recente sta mettendo in questione la struttura dell’uomo, così come ci è stata trasmessa dalle origini dell’umanità. Che cosa sia uomo, o sotto-uomo o super-uomo tende ad essere sempre meno chiaro. A questo punto le strategie di educazione familiare procedono con il bricolage: la strada che più o meno consapevolmente l’Occidente educativo sta imboccando è quella del “fai da te”. Del rischio educativo di Don Giussani, scritto quando la possibilità di costruire nuove specie umane era prevista solo nei libri di fantascienza, ciò che mi colpisce non è la nozione di “rischio”, quale condizione esistenziale inevitabile di due libertà asimmetriche in azione. È piuttosto il richiamo alla realtà. Educare significa che io ti indico la struttura della realtà, così come a me si manifesta nell’evidenza. Da questa ontologia dipende un’antropologia, un’idea del destino dell’uomo, della sua missione. E da ciò dipende l’educazione, che è ontologia applicata. Il metodo educativo è indicare la realtà. Solo di lì nascono il bene e il male e il criterio per discernerli. Indicare con l’intelligenza della visione, con la visibilità delle opere. Solo dopo incomincia il rischio nella forma di una biforcazione: che il figlio veda un’altra realtà o che il figlio non veda che il nulla. L’appello denuncia questa seconda possibilità: che né i genitori né i figli si pongano più, nel rapporto tra le loro libertà, il problema della realtà. In questo caso, il rapporto tra le libertà non scompare, ma diviene un gioco irrisolto, senza posta. Un gioco che non potrà durare a lungo. Produrre società, storia e civiltà è possibile solo nel rapporto con la realtà. È evidente che la posta in gioco è ciò che chiamiamo Europa e Occidente. I firmatari dell’appello temono che la stiamo perdendo.
Andrea Muccioli, responsabile della Comunità San Patrignano
Di droga si parla sempre meno. Sembra che questo problema non ci riguardi più. Per i tossicodipendenti esistono i servizi pubblici e per gli altri, i nostri figli che magari a 14 anni fumano spinelli o prendono pastiglie, non c’è problema. Non sono “drogati”: sono “normali”. Negli ultimi anni li abbiamo martellati con messaggi sulle droghe “libere e leggere”, pensando che ciò potesse aiutarci a rimuovere il problema. Di chi è la responsabilità? Di tutti noi, o meglio di ognuno di noi. Ogni volta che rinunciamo ad ascoltare nostro figlio, ogni volta che gli sbattiamo in faccia la nostra distanza dai suoi bisogni più profondi. Persi a rincorrere egoistici sogni di benessere o di potere, deleghiamo il rapporto con il nostro figlio e la sua educazione, la sua serenità, al computer, a internet, al telefonino: sempre a qualcun altro. è qui che nasce quel disagio profondo che spesso sfocia nella tossicodipendenza. Occorre che ognuno di noi faccia di più. Costruire strutture in cui la parte migliore della nostra società, gli adulti, i genitori ancora disponibili ad ascoltare e incontrare i giovani, mettono a loro disposizione se stessi, le loro capacità, la passione per la vita, per qualche ora ogni settimana. Parlo di centri di aggregazione dove sia possibile per i ragazzi incontrarsi, studiare, imparare un mestiere, progettare con l’aiuto di educatori, insegnanti e professionisti, il proprio futuro. Luoghi organizzati dove ragazzi e famiglie possano trovare un punto di riferimento concreto, una certezza di umanità a cui appoggiarsi. è quanto San Patrignano sta facendo insieme ad alcune delle più importanti realtà di privato sociale del nostro paese: aprire luoghi destinati all’educazione dei giovani. Strutture che siano un esempio di possibile risposta alla grande emergenza della nostra società: il vuoto che si è creato tra noi e i nostri figli.
Marina Corradi, editorialista di Avvenire
Non credo che un sondaggio condotto fra i genitori, sia pure postsessantottini, li troverebbe così inconsapevoli di non avere saputo educare. Almeno, quelli dotati di un po’ di onestà intellettuale lo riconoscono. è sotto gli occhi, del resto, che se un’intera generazione a trent’anni e oltre si rifiuta di andarsene da casa, almeno qualcosa non ha funzionato: non c’è stata a livello collettivo la spinta a buttare in fuori, verso la loro vita, questi figli. Credo sia vero che la generazione dei cinquantenni, e soprattutto di sinistra, della parola “educazione” ha avuto vergogna e paura, associandola a pratiche vessatorie e oppressive. “Vietato vietare”, era del resto uno dei motti fondanti del maggio del ’68 sui muri parigini, e tutto il resto non ne è che un derivato. Un amico che ha fatto le scuole medie negli anni Settanta alla periferia di Milano attribuisce addirittura alcune sue incertezze di ortografia al palese timore degli insegnanti di correggere gli errori, quasi questo ledesse la libertà degli alunni. Il fatto è però che quella sessantottina è stata una cultura pedagogica in gran parte demolitoria: niente andava più fatto come prima, tutto andava sradicato e capovolto, ma, in positivo, l’eredità lasciata pare un affidamento al puro individualismo, o all’andare dove più facilmente l’istinto porta. Ho l’impressione che la generazione di genitori successiva, quella che oggi ha figli bambini o adolescenti, si accorga – essendo molto meno ideologizzata – di questa deriva, ma faccia fatica a ricominciare a educare. Da dove si riparte? Bisogna credere in qualcosa, avere una proposta da fare; mentre tutto è stato livellato dal relativismo di questi quarant’anni, tutto raso al suolo in un pensiero in cui ogni cosa vale l’altra, e tutte, alla fine, non valgono niente. Chi poi invece, non cedendo a questa corrente, pretende di richiamarsi al pensiero cristiano, facilmente viene apostrofato da certi intellettuali laici di reazione oscurantista. Credere è tollerato finché rimane un fatto privato e lontano dai giornali e dalle scuole. I pensieri forti non paiono più sopportati; ma coincidono, tuttavia, con la domanda esigente sulla vita che da sempre accompagna gli adolescenti.
Ritanna Armeni, conduttrice di “Otto e mezzo” e opinionista di Liberazione
Mi sono fatta un punto d’onore nell’avere avuto, sempre e su ogni cosa, desta la difficile domanda: è bene o male? Non si può risolvere la questione educativa nella limitazione autoritaria della libertà di un altro e nemmeno nella formalità di comportarsi bene a tavola o salutare con un buongiorno e un buonasera. Certo, la semplicità di un gesto come cedere il posto a un anziano sull’autobus è una cosa importante, ma proprio per la natura sostanziale e non formale del gesto che riafferma ogni giorno i valori e i princìpi in cui crediamo. Ho sempre cercato di trasmettere a mia figlia il senso profondo della generosità e in cosa consistesse avere questo sguardo su chi le era vicino: sii sempre generosa, perché quello che dai, bene o male, torna sempre. Perché un figlio ti sfida, mette alla prova la tua coerenza, fornendoti spesso l’occasione di ravvederti. Un figlio aiuta a chiarirsi le idee e nell’educarlo ti senti come davanti a uno specchio che non cessa mai di mostrare le tue contraddizioni. Rende possibile un’educazione reciproca. Educare impone un’autodisciplina e inevitabilmente cambi, e molto, perché devi rispondere a un altro che ami più di te stessa. Un mio amico ripete sempre una frase: con i figli si hanno due scelte, o sbagliare molto o sbagliare moltissimo. Forse ho “sbagliato” nel non aver fatto delle cose che avrebbero potuto aiutare di più mia figlia ad esprimere se stessa, sono stata eccessivamente presente e protettiva: ma se così fosse, sono contenta di avere sbagliato molto e non moltissimo.
Angelica Calò Livné, educatrice ebrea, Kibbutz Sasa, Alta Galilea, Israele
Kfir ha ricevuto ieri la scheda del primo semestre, l’ultima prima della maturità. C’erano 90, 98, 85 alcuni 68 e un 45. Tutti brutti voti. «Vedrai mamma, per la maturità rimetto tutto a posto!». Avrei voluto chiedergli come, ma non siamo forse noi che lo abbiamo educato a interessarsi a tutto? A casa l’ho chiamato in camera mia: «Vorrei che scrivessi una lettera a me e a papà, descrivendo come intendi uscire da questa situazione. Con date precise, per filo e per segno!». «Adesso?». Torna dopo un’ora con questa lettera: «Buona sera mamma e papà. Sicuramente conserverete questa lettera come documento, se non manterrò tutto quello che ho scritto. Grammatica: ho parlato con Hora, la prof, e ho preso appuntamento con Ruthi che cercherà di tirarmi fuori dall’impasse; la incontrerò due volte a settimana, al pomeriggio. Torà: Zippi è arrabbiata perchè a volte mi addormento durante la sua lezione, non sarà un problema migliorare il voto. Letteratura: non mi sono impegnato come negli anni precedenti e Orli ha perso la fiducia… ma un dovere è un dovere. Vedrete che voto porterò alla maturità! Mamma, lo so che siamo agli sgoccioli, farò del mio meglio per finire questo “capitolo” come si deve. Oltre agli studi ho altri progetti per il prossimo semestre: aumentare gli allenamenti di triathlon, prendere la patente, scrivere testi di musica. State tranquilli, andrà tutto ok! Vi voglio tanto bene». E, sotto alla firma, il disegno di un volto sorridente incorniciato di riccioli. Quando gli chiedo se posso mandare a Tempi questo pezzo mi dice: «Ma mamma, non so se servirà a qualcuno, per fare una cosa del genere bisogna essere abituati da piccoli». Ed è in questo che credo: un’educazione all’amore, all’azione, alla positività, alla responsabilità. Fin da piccoli. Per creare persone che sanno ancora emozionarsi, che sanno di avere un dovere verso la loro famiglia, verso la loro appartenenza. Verso il mondo che li accoglie, che li accoglierà in futuro e dove si impegneranno ad accogliere i loro cari.
Lucia Barbone, liceale
Sono una ragazza di 19 anni, prossima alla maturità classica. Ho letto con interesse l’articolo che richiamava fortemente i genitori a “imporre dei limiti ai figli” in virtù di una convinzione che con loro si vorrebbe condividere e che ormai spesso non esiste neanche più. Io vengo educata continuamente, sia come figlia sia come studentessa; tutti (o quasi) i momenti della mia giornata sono un continuo apprendere. Ma se la mia educazione consistesse solo nel fornirmi informazioni o nel pormi dei limiti (o nel non pormerli), allora non mi interesserebbe. Non mi interesserebbe perché non mi sarebbe utile. è giusto porre dei limiti, anche dei divieti a volte, ma io voglio saperne le ragioni. Solo sapendo le ragioni posso comprendere se il limite che mi viene posto è un di meno o un di più per me, e solo sapendo le ragioni posso imparare un metodo di giudizio che si possa poi estendere a tutti gli aspetti della mia vita e che diventi veramente mio. Insomma, che faccia di me una persona e non un automa nelle mani di qualcun altro. L’idea che un adulto rischi su di me, mi piace e anche molto. Mi dà un forte senso di responsabilità che si ripercuote nel mio agire. Soprattutto mi fa sentire voluta bene: si scommette solo su una persona a cui si tiene veramente. Se l’educazione consiste in questo, allora chiedo di essere educata, lo pretendo!
Thea Scognamiglio, universitaria
L’articolo di Paola Mastrocola, giornalista di sinistra, è una dimostrazione di come l’emergenza educazione riguardi tutti, cattolici e non. Qualcosa di più di un problema scolastico. L’assenza di regole nel rapporto tra genitori e figli ha radici più profonde. La filosofia del laissez faire è l’essenza del relativismo, quello stesso che Benedetto XVI ha indicato come il vero nemico della democrazia. Ho avuto la fortuna di nascere da un padre non relativista, un’autorità vera, che a volte mi ha imposto cose (il liceo classico) che io non avrei scelto, fondando sempre il suo giudizio su ragioni valide. Mio padre è liberale, un vero figlio di Adam Smith, un democratico, che aveva capito che l’essenza dell’educazione di un figlio non è lasciar fare in nome del rispetto. La mia educazione è stata fondata sulla ragionevolezza di un uomo che aveva vissuto più di me. Da lui ho imparato il metodo della ragione. Crescendo ho maturato idee distinte da quelle di mio padre, ed egli ha dimostrato un’incredibile apertura a questo riguardo. Un’apertura che non ho mai visto in uomini senza radici, senza convinzioni.
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