
Educazione:il problema politico
Occorre tagliar corto. Analisi e informazioni intorno ai giovani battono l’aria. Dei loro comportamenti si sa tutto e, infatti, li si può influenzare su tutto: costumi, mode, orientamenti politici. Dopodiché, tracciato l’identikit del teen-agers medio e del Jonas che avrà vent’anni nel 2000, dal settore sportivo a quello dell’abbigliamento, dall’industria del turismo a quella delle discoetche, il marketing aziendale è perfettamente in grado di pianificare- come pianifica – la produzione, la statistica di spiegare – come spiega – che i giovani prolungano la loro permanenza in famiglia, gli psicologi dedurre – come deducono – le ragioni del permanere del disagio giovanile, gli opinionisti commentare – come commentano – tutta la tiritera di situazioni connesse allo smarrimento di principi, valori, ideali.
Educazione e “religione del progresso”
Succedaneo alla pubblicità massmediatica mascherata di dotta sociologia, tutto ciò non dice nulla di quell’impresa, così decisiva per la preservazione di una comunità umana e di un mondo comune, che è l’educazione delle giovani generazioni. Questa impresa, politica per eccellenza, dovrebbe essere avvertita come primaria per la sopravvivenza stessa di una Polis (e tale fu sentita dalla civiltà greca, poi latina e infine, per parecchi secoli, nella società cristiana ). Di fatto è stata amputata di parecchi fattori concorrenti all’obbiettivo di ogni educazione, la creazione di una personalità adulta. Venuto in sospetto lo stesso lemma “educazione”, implicante il gravoso esercizio della conduzione e introduzione alla realtà totale dei cuccioli dell’uomo, scarseggiando la stessa materia prima, cioé i bambini, famiglia boccheggiante e trionfante invece l’immagine del single che cavalca sellini casuali (vite di uomini e di donne che si incrociano incidentalmente e comunque sempre meno stabili compagni di destino) il tempo dell’educazione si infrange sul roccioso scenario del lavoro in funzione del denaro e, speculare a questo, del tempo libero dedicato all’hobby cinofilo, al turismo planetario, alla domestica evasione. In questo orizzonte avaro di skolé, di bel tempo dedicato alla sollecitudine del maestro per lo scolaro, del vecchio ospite del mondo per il nuovo spravvenuto, il mercato degli agnelli è affidato ai fattori specialisti nell’istruzione, cioé addestratori al lavoro (che pur langue) e alle abilittà tecniche (che in realtà vengono acquisite altrove che nelle scuole e nelle univeristà preposte all’uso). A sostegno di questa impostazione – che è un recinto in cui le nuove generazioni vagano senza particolari entusiasmi, pascolate da persone competenti, ma frustrate da un ruolo, quello dell’insegnante, che la politica ha vieppiù ridotto al rango di posteggiatore di capitale umano o di guardiano di vacche alle malghe – si è di recente fatta strada anche in Italia l’idea (dominante da almeno mezzo secolo negli Stati Uniti, grazie alla lezione di John Dewey, padre della moderna pedagogia) secondo cui l’obbiettivo primario della scuola pubblica deve essere quello della creazione di “un’intelligenza finale collettiva, una missione al servizio del progresso e della democrazia”. Di qui discende quel modello, negli Sates già ampiamente sperimentato, dove l’enfasi è posta sull’educazione alla legalità e ai diritti di cittadinanza (con tutta la prosopopea del politically correct che conosciamo, multiculturalismo, antirazzismo eccetera).
Tante istruzioni, nessuna avventura L’esperienza sta però a dimostrarci che, così come è impostata, la vicenda formativa pare che non attacchi, e, anzi, è sicuro non attacca. I giovani ascoltano la predica, ma come si direbbe con linguaggio scolastico, non la assimilano. Non solo. Quanto più il richiamo etico diventa prezzemolo che si sparge dai romanzi alla biologia, dalle scienze alla guerra, la noia avanza. Tant’è che già fin dalle elementari, il perspicace passerotto Cipì impegnato a spiegare a generazioni di piccini i valori della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza, ingenera tra i bambini atteggiamenti tipo quelli riscontrati dallo scrivente in famiglia: “che noia papà! In questa storia non c’è nessuna avventura, questi parlano e basta”. L’etica piazzata davanti a quella avventura che è la vita, è il proverbiale carro messo davanti ai buoi. Provatevi a farlo avanzare. Niente. Può solo succedere che, quando si mettono in movimento, i buoi travolgano il carro. Ed è esattamente quello che succede: non solo bambini e adolescenti non sono innocenti come credette qualche sciocchina utopia; non solo si scopre – come ha sempre detto il cristianesimo – che il limite è insito nella natura umana e che non è affatto vero (come sosteneva Rousseau) che il fanciullo è corrotto perché la società è corruttrice e che altrove, in natura, non lo sarebbe, ma si capisce dalla cronaca che, da Denver a Milano, l’avento tragico che sconvolge ogni lezione etica “capita anche nelle migliori famiglie”.
“Surplus etico” (o suppostina?), baby gang e baby sboom Al di là della disgrazia specifica, c’è la sensazione diffusa di un disorientamento giovanile su cui tutti chiamano a correre ai ripari. Purtroppo però succede anche in America – dove il fenomeno del disagio giovanile è analizzato fino ai minimi particolari e l’informazione è pervasiva al punto da far smarrire nello spettatore i confini tra fiction e vita reale – che non emergano molti rimedi se non l’ammissione di una generica colpevolezza della società di massa e, considerato che le tragedie sono statisticamente ricorrenti ma percentualmente irrilevanti per il sistema, l’invito a considerare il malessere come un fenomeno insito nella struttura della cività tecnologica (in fondo è la vecchia dottrina positivista di Émile Durkheim, padre della sociologia moderna, che nello scorso secolo ci diede relazione scrupolosa e dettagliata di fenomeni come il suicidio interpretandoli alla luce dell’anomia sociale prodotti dalla rivoluzione industriale). Ecco allora che di nuovo ci si volge all’etica e si pigia sull’acceleratore della normativa e delle leggi per richiedere a tutte le parti in causa (famiglia, scuola, massmedia, politica, cinema) un surplus di attenzione (“autoregolamentazione”, si dice), pena la sanzione legalistica, che dovrebbe agire come cauterizzante le ferite prodotte dalle inevitabili contraddizioni della società di massa. Ma come ha acutamente segnalato su queste colonne lo psicoanalista newyorkese Robert Stein, è che l’etica e tutto l’armamentario legislativo occorrente a sostenerla, appare come una corda che pretenda di tenere insieme un carro lanciato a tutta velocità e stracarico di varie mercanzie. Alla prima curva il carro si ribalta e tutta la mercanzia si disperde sull’asfalto. “L’America di oggi ha leggi che impediscono a un diciottenne di bere alcolici fino a 21 anni, pur concedendogli già di votare” ha osservato Stein, “una contraddizione tra la legge e un far west senza regole che lascia dietro di sé uno strascico di amaro rancore per le autorità”. Mutatis mutandi è la schizofrenia che iniziamo a constatare anche in Italia dove, nella famiglia come nella scuola, (grazie soprattutto a una fin troppo mitizzata stagione di cosiddette Mani Pulite) si è fatta largo l’ideologia della “sovraeccitazione etica”, l’enfasi del richiamo legalistico, l’identità tra buon senso e rispetto delle regole. A fronte di questo insistito e propagandato richiamo alla moralità (intesa come una sorta di pedaggio pagato a una religiosità senza Dio o a un cristianesimo senza Cristo, pura e semplice rivisitazione e richiesta di adesione al dover essere kantiano che si inchina ai valori e diritti attuali di cittadinanza universali) il giovane si trova quotidianamente immerso in un milieu sociale in cui non soltanto è evidente la discrasia tra il messaggio etico e reatà, tra principi affermati in astratto e guerre reali che di tali principi si fanno portabandiera, ma che lo stimola a seguire modelli che sono esattamente il contrario di quelli suggeriti dal richiamo etico. Un mondo in cui prevale quella mentalità sinteticamente e significativamente registrata da una pubblicità di successo: la mentalità del “Just do it”, del “fallo e non pensare”, che suggerisce una modalità di esistenza e di relazioni umane fondate sulla pura reattività, sulla forza e sulla negazione della ricerca di ragioni adeguate all’esperienza.
Educazione, impresa umana e politica per eccellenza (ma in via di estinzione in Italia) Capiamo bene che tra questi due poli – il far west e le campagna etica (come quelle contro la droga, la corruzione e l’Aids) – si apre una voragine che scuola e famiglia dovrebbero contribuire a colmare. Qui entra il problema dell’educazione (intesa non soltanto come addestramento tecnico ma, in considerazione dell’oggetto in questione, come attenzione al bisogno umano, razionale ed esistenziale del giovane) e, di conseguenza, il problema della politica (che dovrebbe realizzare le condizioni materiali perché l’impresa educativa possa svolgersi in pace e per il bene comune). Ma se, come abbiamo accennato sopra, l’educazione esige oggi una lotta accanita all’omologazione e una statura umana in cui l’etica non si riduca alla ripetizione di formule suggerite da un certo potere dominante, il primo modo con cui la politica si mette al servizio dell’impresa educativa è quello di offrirle protezione, cioé libertà. Condizione che invece oggi non viene di fatto realizzata in Italia, dove a fronte di un grande sforzo riformatore, si registra ad esempio (da parte di lobby intellettuali, sindacali, organi di informazione) una straordinaria e incredibile resistenza a realizzare quella parità, cioé libertà, scolastica che caratterizza i sistemi pubblici di istruzione occidentali. Sotto un altro punto di vista la libertà di educazione è oggi così minacciata in Italia che, messa nella condizione di dover sostenere oneri (fiscali e sociali) altissimi, la famiglia italiana ha addirittura rinunciato a mettere al mondo dei figli. Mentre gli illustri detentori del potere politico, economico, massmediatico italiano si azzuffano sugli schemi di riforma elettorale, sulle privatizzazioni o sulla cronaca di costume, è veramente paradossale dover ascoltare da una bibbia del potere finanziario internazionale (l’americano Wall Street Journal) la denuncia della “prospettiva apocalittica della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione italiana” e, per contro, constatare l’assenza quasi totale in Italia di una politica che si ponga il problema di cosa fare concretamente per arginare tale prospettiva.
Non è mai tardi per ricominciare.
A lottare Ora, tutte queste cose le capiscono i genitori che già non sanno che pesci pigliare con i loro figli e per di più divengono oggetto sui mezzi di comunicazione di massa di campagne razziste e di criminalizzazione (si noti al riguardo quanto è singolare che quegli stessi ambienti politici che difendono l’eticità degli incentivi economici offerti dal comune di Bologna ai transessuali, denuncino come “immorale” e “fascista” una delibera del comune di Milano che prevede sussidi per le coppie che desiderano avere figli, ma che non sono in condizioni economiche tali da poterli mantenere); le sanno gli insegnanti che fanno molta fatica anche solo a tenere l’ordine in classe; le sanno i politici presi con i calzoni a mezz’asta; le sanno i sindacalisti per cui la scuola è la banale scusa per difendere legittimi interessi di categoria; le sanno i giornalisti che per una volta hanno ricevuto il compito di occuparsi dell’argomento più noioso della cronaca; le sanno i preti che, quand’anche non avessero già chiusi gli oratori perché deserti o assediati dai teppisti di periferia, hanno trasformato le chiese in sale di concerto rock per attirare una clientela che non scorge più in loro le facce dei salvati. È per tutto questo (e ci auguriamo non per concludere alcunché, ma per aprire un dialogo sull’educazione dentro e fuori a questo giornale) che nelle pagine seguenti si offrono due diverse e problematiche testimonianze sulla questione educativa vista da due grandi maestri di questo secolo, nella duplice prospettiva della famiglia e della scuola.
Perché Luigi Giussani e Hannah Arendt La prima testimonianza è quella di don Luigi Giussani, il sacerdote milanese che, alla metà dagli anni ’50, diede il via a un movimento tra i giovani (Gioventù studentesca che nel 1973 assunse il nome di Comunione e Liberazione) che è sì cristiano e cattolico, ma proprio perché movimento, nasce non grazie alle cure o ai progetti istituzional-clericali, ma nell’incontro sui banchi di scuola tra una professore carismatico e studenti, estendendosi poi per osmosi da Milano a tutta l’Italia fino a diventare il primo grande movimento studentesco del dopoguerra, per molti versi (non foss’altro perché molti dei suoi protagonisti erano passati da Gs), l’anticipatore del ’68. Non solo: dei movimenti usciti dal ’68, quello di don Giussani è oggi l’unico grande sopravvissito a tutte le stagioni di utopia, violenza, riflussi e giustizialismi vari che hanno caratterizzato il trentennio postsessantottino. E l’unico – come suggeriscono i recenti esiti delle ultime elezioni univeristarie – che abbia mantenuto fede alla parola d’ordine del maggio francese, “présence, seulement de la présence”, come scrive don Giussani nel suo “Senso religioso”, “frase che, letta nella sua verità, non indica la mera attualità dell’istante, ma, con il sostantivo ‘presenza’, suggerisce tutto il dinasmismo che pulsa nell’istante e che proviene come ‘materiale’ dal passato e, come iniziativa misteriosa, dalla libertà”. E maestro di libertà, laico fin dagli inizi si caretterizzò l’insegnamento giussaniano, al punto che da Gs vi potevano entrare e uscire (come in effetti accadde), allontanarsi e ritornare, radicali e comunisti, conservatori e progressisti, democristiani e repubblicani, qualunquisti goliardici e terzomondisti impegnati. In questo attaccamento alla libertà che si esprime fondamentalmente come sfida della ragione, accettazione della realtà e amore alla verità, Giussani si trova idealmente sulla stessa lunghezza d’onda dell’ebraismo laico di Hannah Arendt, che incarna un tipo di umano – specie tra gli intellettuali – assolutamente unico in questo secolo, in cui razionalità, potenza affettiva e realismo si fondono con esiti di rigorosa ricerca scientifica e, insieme, di grande visione politica, umana, poetica. Scrive la su allieva e biografa Elisabeth Young-Bruehl: “Costantemente controversa come pensatrice, s empre isolata e deliberatamente distaccata da scuole e accademie, da partiti politici e da sistemi ideologici, Hannh Arendt si andò conquistando un pubblico sempre più vasto”. Alla fine, in sede di bilancio della vita e delle opere dell’ebrea prussiana di Königsberg, si vide che Hannah Arendt, non fu soltanto una delle vette più originali della filosofia di questo secolo, ma anche eccellente docente universitaria e ricercatrice storica, la più acuta studiosa del totalitarismo, brillante giornalista e penna autorevolissima anche nell’ambito della critica letteraria. Una testimonianza unica e, si dice, rimasta isolata nella storia del ’900. In realtà noi siamo convinti che ci sia ancora molto da scoprire nel pensiero arendtiano e che esso, come un flusso carsico, sia destinato a riaffiorare ovunque ci sia serio anticonformismo, vera poesia, intelligenza viva della realtà. Non a caso, ad esempio, si possono cogliere segni evidenti della lezione arendtiana nel filosofo e saggista ebreo nostro contemporaneo Alain Finkielkraut, il quale – come ha rilevato un recente articolo di Le Monde in recensione all’ultimo libro dello studioso parigino – è oggi un esponente di quel “conservatorismo eminentemente democratico” che fu anticipato da Hannah Arendt e definito Hans Jonas “un conservatorismo di movimento”. Cosa hanno in comune un prete italiano fondatore di un movimento cattolico oggi diffuso in tutto il mondo e la più brillante allieva di Heidegger, estimatrice di Guardini e Jaspers? Lo comincerete a scoprire sentendoli parlare, ascoltando le pagine che seguono.
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