La preghiera del mattino

La prospettiva di un’escalation senza chiari obiettivi sgomenta gli alleati Usa

Joe Biden
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden (foto Ansa)

Sul Post si scrive: «L’incrociatore “Moskva” è una delle navi più importanti di tutta la flotta russa, e l’affondamento è considerato da molti un duro colpo per l’esercito russo, sia dal punto di vista militare che simbolico».

L’aggressione russa all’Ucraina è tutto tranne che un passeggiata: la perdita dell’incrociatore “Moskva” ne è un’ulteriore prova.

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Sul Sussidiario il generale Giuseppe Morabito, membro fondatore dell’Igsda e del Collegio dei direttori della Nato Defense College Foundation, dice: «A mio parere, per gli ucraini è impossibile fermare i russi in caso di attacco massiccio o vincere la guerra. Stando così le cose, se la Russia ha deciso di prendersi il Donbass, prima o poi, purtroppo, raggiungerà il suo scopo. Non si può, al momento, calcolare quante perdite gli ucraini riusciranno a infliggere ai russi e quanto i russi considerano accettabile, sempre in termini di perdite, pur di raggiungere il loro obiettivo. E soprattutto: quanto a lungo potranno ancora difendersi gli ucraini? Dobbiamo comunque tutti sostenere Kiev nella sua resistenza, con tutti i mezzi possibili».

È difficile dissentire dalle valutazioni del generale Morabito, e, in questo senso, se si rinuncia a un’ipotesi di trattativa, non si comprende bene quali obiettivi ci si possa porre.

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Su Huffington Post Italia Ian Bremmer dice: «Putin non ha opzioni per fare marcia indietro. L’Occidente dal canto suo continua con l’escalation. Non c’è un dividendo di pace in Ucraina. E l’Europa deve pensare alla sua difesa».

Persino nelle parole di un esponente molto legato all’amministrazione americana come Bremmer (come d’altra parte in quello dello stesso William Burns, direttore della Cia), che accusava Mario Draghi di essere un “Gehrard Schroeder italiano” per sue titubanze verso Mosca, si sollevano dubbi su una escalation senza chiari obiettivi.

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Sul sito del Tgcom si scrive: «Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, appare sempre più in difficoltà nei sondaggi. Secondo l’ultima rilevazione di Quinnipiac, solo il 33 per cento degli americani lo promuove, a fronte di un 54 per cento che lo boccia su come sta conducendo il suo lavoro».

In una democrazia gli orizzonti elettorali sono sempre rilevanti e su Biden incombono le elezioni di midterm a novembre. Persino Donald Trump pare venire in suo soccorso sull’Ucraina, per evitare un eccessivo isolamento degli Stati Uniti.

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Su Dagospia si scrive che «Joe Biden finisce spernacchiato anche dai sauditi! Durante Studio 22, una trasmissione della tv di Stato Mbc è andato in onda uno sketch in stile Saturday Night Live, in cui il vecchio “Sleepy Joe” viene preso brutalmente in giro».

Non sempre si coglie nella strategia dell’amministrazione democratica alla guida degli Stati Uniti una visione che riesca a rassicurare gli alleati, che rispondono con atteggiamenti platealmente d’insoddisfazione, un tempo non concepibili.

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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «Stando a Reuters, la compagnia petrolchimica statale cinese Cnooc sarebbe sul punto di cedere le proprie operazioni negli Stati Uniti, in Canada e in Regno Unito. A motivare la decisione – secondo le fonti dell’agenzia – sarebbe il rischio che le sue proprietà in questi paesi possano venire colpite dalle sanzioni occidentali legate all’invasione russa dell’Ucraina. La settimana scorsa gli Stati Uniti hanno fatto sapere che la Cina, qualora dovesse aiutare la Russia a evadere le sanzioni – che, tra le altre cose, rendono più difficile al paese accedere alle riserve in valuta estera e processare i pagamenti internazionali -, potrebbe subire delle conseguenze. Pechino è legata a Mosca da una partnership strategica e non ha condannato l’aggressione russa all’Ucraina, almeno finora».

Le manifestazioni di forza verso Mosca, nella sostanza inevitabili dopo l’aggressione russa all’Ucraina, se non sono calibrate all’interno di una strategia, possono determinare scenari globali oggi non prevedibili.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Lorenzo Formicola scrive: «L’amministrazione Biden aveva bruscamente ritirato il sostegno americano al gasdotto appena poche settimane prima dello scoppio della guerra in Ucraina, adducendo come motivazione che il progetto fosse antitetico ai propri “obiettivi climatici”. Nel tentativo di ridisegnare la mappa energetica dell’Europa, e sebbene l’EastMed – la lunghissima tubatura da Israele alle coste del Salento – favorirebbe l’indipendenza energetica europea dal gas russo, Biden, in queste ore, ha di nuovo affossato il progetto. Victoria Nuland, influente vicesegretario del dipartimento di Stato Usa per gli Affari europei ed eurasiatici, in questi giorni, infatti, è stata in visita ufficiale ad Atene, Nicosia ed Ankara. “Questo pesante gasdotto in fondo al mare, sarà molto costoso e richiederà dieci anni per essere costruito, ma noi non abbiamo dieci anni da aspettare, né miliardi di dollari per queste cose: in quel lasso di tempo vogliamo già essere verdi, non un gasdotto”. Poche battute per infliggere il colpo di grazia all’EastMed».

Naturalmente Washington protegge i suoi interessi, anche in cambio della costosa rete di sicurezza che garantisce all’Europa. Dovrà però stare attenta a mediare i propri obiettivi con quelli degli Stati dell’Unione se non vuole subire dei contraccolpi nel medio periodo.

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Su Formiche Roberto Arditti scrive: «Ecco emergere qui un crollo della fiducia verso Washington, oggi assai meno popolare di un anno fa. Perché accade questo? Non è facile rispondere, però è certamente vero che almeno tra fattori hanno influito non poco. C’è un passaggio di potere da destra a sinistra (da Trump a Biden) che non piace a metà degli italiani, c’è la devastante brutta figura americana dell’ignobile fuga da Kabul dell’estate scorsa e c’è anche un senso di più complessiva fragilità americana che ha avuto nella drammatica giornata degli scontri a Capitol Hill una palese dimostrazione».

Persino in un sito molto attento alle ragioni di Washington si avvertono fenomeni di dissenso, certamente bilanciati dalla ragionevole fretta con la quale finlandesi e svedesi cercano riparo dall’aggressività russa nella Nato, ma da non trascurare.

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Su Huffington Post Italia Carlo Renda scrive: «“Il petrolio non si trova in Svizzera”, è la frase che ripeteva continuamente Paolo Scaroni negli anni in cui guidava l’Eni, per spiegare che, per approvvigionarsi di fonti energetiche, bisogna anche accettare di non poter scegliere chi te lo vende».

In Italia poi un certo “atlantismo senza riflessione” è aggravato dall’impoliticità del segretario del Pd, Enrico Letta, che critica il governo, persino, perché tratta con l’Egitto per cercare di sostituire il gas russo.

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Su Strisciarossa Claudio Visani contrappone Enrico Letta che dice: «Giusto fornire armi all’Ucraina, nell’articolo 11 della Costituzione ci sono ragioni che motivano l’intervento di oggi. Siamo perfettamente in linea con la Costituzione italiana ed europea e siamo in linea con i valori più profondi di questo secolo» al cardinale Matteo Zuppi che dice: «C’è il problema del diritto dell’Ucraina alla difesa. Ma c’è anche il problema di come si risolve il conflitto. Che è il vero problema. Per farlo occorre capire la storia, le occasioni perdute, da dove viene questa violenza, come sanare le ferite di oggi. Ripartire dagli accordi di Minsk, ricostruire un clima di sofferta fiducia: è l’unico modo. O c’è solo la patologia dei torti subiti, dei patti non rispettati e quindi delle vendette, degli odi e delle nuove ferite di oggi».

In un sito di ex comunisti legati ancora al loro passato, ci si pone il problema del rapporto tra le scelte politiche rilevanti ma contingenti come il rifornire di armi la resistenza ucraina, e il porsi una prospettiva strategica ispirata da dei princìpi. E su questo problema, si constata che oggi si trovano argomenti più appassionanti nelle posizioni di esponenti della Chiesa che nel pensiero del segretario del Pd.

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