
Eutanasia. Gattinoni: «È un falso problema. L’accanimento terapeutico in Italia è già evitato»
“Eutanasia”, “dolce morte”, “accanimento terapeutico” sono termini che tornano ciclicamente nel dibattito pubblico italiano. Dopo il caso Sabatelli, a far discutere è stato quello del dottor Giuseppe Maria Saba, ex anestesista di 87 anni, che ha confessato all’Unione Sarda di aver aiutato a morire un centinaio di pazienti. In seguito all’intervista, si è acceso ancora una volta lo scontro politico circa la necessità di introdurre anche in Italia una legge sull’eutanasia per evitare che i malati terminali soffrano inutilmente. Tuttavia, per Luciano Gattinoni, luminare di anestesia e primario al Policlinico di Milano, «quello dell’eutanasia è un falso problema». «L’accanimento terapeutico in Italia è già evitato», spiega Gattinoni a tempi.it, «in rianimazione muore il 15-20 per cento dei pazienti. Per desistenza, cioè per la sospensione dei trattamenti, di questo 15-20 per cento, ne muore l’80-90 per cento».
Cosa intende dire con “desistenza”?
Quando si stabilisce che un malato, in seguito a una crisi acuta, è terminale e la terapia non serve ed è soltanto un prolungamento dell’agonia, il medico può desistere, sospendere il trattamento, e alla seguente crisi acuta non intervenire per fermarla.
Quindi, in un certo senso, l’eutanasia è già praticata dai medici italiani?
Non facciamo confusione. L’intervento “attivo” del medico è proibito dalla legge: non è legale amministrare una medicina che provoca la morte del paziente. Ciò non significa che, come ebbe a dire anche papa Pio XII, non si possa togliere il dolore, anche con mezzi che potrebbero abbreviare la vita del paziente (“Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957”, ndr). Inoltre spesso con il termine “eutanasia” si identifica il suicidio assistito. Ma il suicidio assistito è quello che viene fatto in Svizzera. In quel caso, ad esempio, se una persona sta male, ha metastasi ovunque e intende suicidarsi, paga e lo aiutano a farlo. Non ha però nulla a che vedere con quanto accade negli ospedali e nei reparti di rianimazione.
Come si fa a stabilire quando c’è accanimento terapeutico?
Nei paesi anglosassoni l’accanimento terapeutico viene definito “futile medical care”, cioè una terapia inutile e dannosa che porta a un prolungamento dell’agonia del paziente. Teoricamente è facile dire quando si tratta di accanimento terapeutico: per esempio, è ovvio che se con una terapia pretendo che un cieco riabbia la vista sto facendo un’assurdità. Purtroppo, in quasi tutti i casi non è evidente che una terapia possa funzionare. I medici devono affidarsi a calcoli probabilistici per capire se il paziente può tornare allo status quo ante o no. I fattori per decidere qual è il limite sono diversi. Ci sono atteggiamenti che dipendono dalla cultura, dalla religione dei paesi. Nei paesi anglosassoni e del nord europa di solito preferiscono essere più severi nell’ammissione in terapia intensiva che non sospendere i trattamenti. In Italia, nel dubbio si viene ricoverati. E solo dopo si sospende il trattamento.
Come si decide di sospendere il trattamento?
Quando un paziente giunge in terapia intensiva, dopo una crisi acuta, si accerta subito la sua probabilità di ritornare alle condizioni precedenti o se un trattamento rappresenta solo un artificiale prolungamento dell’agonia. Dopo 24-48 ore abbiamo certezze diagnostiche elevate. Se il paziente non risponde alla terapia o peggiora – per esempio, le probabilità di morte si alzano dall’80 al 90 per cento – allora significa che la terapia non sta funzionando e un ulteriore tentativo sarebbe accanimento terapeutico. In quel caso si accompagna il paziente alla morte.
La decisione di “desistere” chi la prende?
Non dovrebbe mai essere un medico solo a farlo. Da noi, al Policlinico, la decisione è sempre collegiale. Si parla con i medici, si sentono gli infermieri, si informano i parenti. È meglio per tutti. Soprattutto per il cervello dei dottori. Non siamo robot, padroni della vita e della morte, e il rischio di andare in tilt è alto. La morte di un paziente tira sempre via qualcosa a un medico. Per questo, anche quando un solo medico dice che preferisce andare avanti con la terapia, in disaccordo con gli altri, personalmente preferisco dargli ascolto. Poi, se non funziona, si lascia che madre natura faccia il suo corso e lo si affida – per chi ci crede – al Padreterno.
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5 commenti
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Infatti, davanti ad un malato senza oggettiva possibilità di vivere è sempre il come porsi davanti un fatto che accade. Se questo non accade è si cerca la morte, è omicidio o suicidio (e qui entra il significato o non significato della vita stessa). Altro è un fatto imprevisto che viene a minacciare la sopravvivenza. Questo è il luogo in cui una terapia può essere futile. Tipico in Utic è fare un massaggio cardiaco ad un malato terminale in arresto (o il problema degli ICD). Il giudizio è “davanti ad un fatto improvviso che sia causa di morte”. Davanti a questo non prevale la visione sul significato della vita
Eutanasia è far morire una persona che potrebbe vivere ancora.
Salvara un paziente terminale da un evento emorragico acuto non è accanimento terapeutico, è permettergli di vivere ancora, per quello che la malattia di base gli consente , evitando di morire dissangato come un cane, e permettendogli amcora un periodo , magari di giorni, di rapporti con i familiari , con se stesso e con la sua coscienza , evenualmente per ricevere i sacramenti se lo desidera.
Questa è una bella morte dignitosa, e non “lasciar andare” un paziente che muore dissanguato. Questo è morire da cani e se si può si deve evitare.
Uno non deve morire come un cane, deve avere cibo acqua e canalizzozione. Il medico non deve essere eutanasico. Basta leggere R. Benson, Il padrone del mondo. Buona lettura.
Sono sempre situazioni molto difficili e la decisione dovrebbe prenderla sempre il diretto interessato, quando è possibile. Il problema diventa molto più grosso quando la persona non può esprimersi e sinceramente non credo sia giusto che al suo posto decida nessuno.
Non è esattamente così. A mia madre 74enne, ricoverata in fin di vita per metastasi tumorali incurabili, sono state somministrate delle trasfusioni e delle cure per interrompere un’emorragia che le sarebbe stata letale, solo perchè i famigliari conviventi (non io, che sono sposata e quindi fuori di casa) avevano acconsentito a questo trattamento, proposto dall’unico (e giovane) medico di guardia in quel giorno (festivo). Risultato: è sopravvissuta 7 giorni in più, senza più riprendere conoscenza e sotto morfina, che prima di quell’episodio non le avevano mai dovuto somministrare (erano sufficienti antidolorifici un pò più blandi). Secondo me, c’è stato accanimento terapeutico, senza contare che lo stesso giovane medico aveva ammesso davanti a me che a sua madre non avrebbe mai somministrato trasfusioni in quell’occasione, ma l’avrebbe “lasciata andare”. Io, per conto mio, ho diffidato mio marito dal sottopormi ad interventi simili se fosi in quelle condizioni….