
Everybody needs somebody (Tutti hanno bisogno di qualcuno)
Vorremmo cominciare, idealmente, rifacendoci a una scena analoga di altre persone che erano in missione per conto di Dio, ed essendo in missione per conto di Dio si sono ritrovate, nell’ultima scena, con parecchi personaggi che li stavano inseguendo. E, come loro, anche noi vorremmo dare questo messaggio di pace, concordia e gratitudine a tutti: Everybody needs somebody! (si proietta la scena finale del film The Blues Brothers ndr). Il nostro convegno sul no profit e le imprese di pubblica utilità era programmato ormai da mesi. I recenti fatti di cronaca c’impongono però di aprire facendo una veloce ricostruzione (vedi box).
La Procura di Milano ha sbagliato indirizzo
Abbiamo preparato per i giornalisti un dossier di 350 pagine che contiene tutto ciò che hanno sempre voluto sapere e non hanno mai saputo, neanche dalla Procura, su questo argomento. Dico “dalla Procura” perché su Repubblica è stato scritto che ci sono degli indagati della Cdo e questi ancora non lo sanno, quindi c’è stata l’ennesima violazione del segreto istruttorio. Dunque posso permettermi anch’io di usare una frase del genere. Io personalmente ho voluto questo progetto perché come milanese sono schifato che di fronte a Chiaravalle ci sia un edificio fatiscente che per anni, anni e anni la Procura ha permesso fosse occupato in modo illegale e con attività al limite della legalità, senza che il Comune potesse intervenire per ristrutturarlo. Che quindi uno dei posti culturalmente più importanti per Milano si permettesse un degrado del genere ancora adesso è uno scandalo. Lo scandalo più grande è che si discuta di queste cose, che non interessi la qualità di Milano. Quindi, sappiatelo, sono io il mandante morale dell’operazione cascina san Bernardo. La questione sta per me in un’affermazione riportata da Repubblica di venerdì 9 e ripetuta oggi – si vede che ci tengono molto – virgolettata e attribuita alla Procura di Milano. Secondo Repubblica, la Procura avrebbe detto: «dietro le società senza fini di lucro si nascondono molto spesso enormi interessi». Cioè dietro le Onlus si nascondono enormi interessi. Quindi neanche l’idea che si tratti di una Onlus che chiunque può andare a vedere nella sua sede a Niguarda, una realtà che cura quelli che non vuole curare nessuno, i malati di mente e gli handicappati fisici, quelli che vanno nei centri comunali e non trovano un’assistenza adeguata, un ente che ha una convenzione col Comune di Milano ed è apprezzata per il suo lavoro, neanche questo è abbastanza per stare tranquilli. Perché “si presume che” ci sia dietro del losco. È una cultura del sospetto.
Chi è fuori dalla legge e fuori dalla Costituzione?
Allora io voglio sapere se basta la legge per i magistrati e per il consigliere di Rifondazione Fedreghini o se non basta la legge. Perché se basta la legge io ho paura che qui non rispettino la legge, non credano nella legge dello Stato, siano contro le leggi dello Stato – ma come tale un magistrato non può essere contro le leggi dello Stato. Se invece – e questa è la cosa che io voglio verificare personalmente – non credono in questo, io sfido – e lo dico qui davanti a tutti – spero non in un Tribunale ma in un teatro, in un cinema, in uno stadio, ovunque – la dottoressa Ichino e il consigliere Fedreghini a un pubblico dibattito sul concetto di “privato” e “pubblico”. Se cioè un privato possa servire una pubblica utilità come lo Stato. O se questo sia – a priori – qualcosa da ritenere negativo. Questa, secondo me, è la concezione culturale che sta dietro questa posizione. Perché non si può presumere un reato prima che ci sia e quando i fatti sono contro, se non si ha questa ipotesi culturale. Io li sfido a un pubblico dibattito da cittadino a cittadino. La mia concezione è – come vedremo – la stessa che pur in forma ridotta è stata introdotta nella Costituzione ieri, articolo 118, sussidiarietà. La sussidiarietà è la possibilità che anche un cittadino possa servire un bene pubblico. Questo è il problema. E con questo non sto demonizzando i magistrati, né sto attaccando la procura di Milano, sto attaccando una posizione particolare ma che io ritengo molto, molto pericolosa per la democrazia e lo sviluppo del nostro paese. E invece di nascondermi dietro un dito lo dico con la mia faccia, il mio pensiero, di uno che si occupa anche professionalmente di queste cose.
Suslov e le minacce alla libertà di associazione
La seconda cosa che voglio dire alla fine di questa ricostruzione è che bisogna sapere la matematica: io faccio lo statistico e dico che se si prendono dei consulenti, questi devono sapere fare i conti. Se l’Istat prevede certi tassi e uno spara una cifra del genere è un ignorante – nel senso di colui che ignora. Allora lo sfido a una gara di matematica per vedere se abbiamo ragione noi oppure no. La terza cosa che dico, ed è la più grave, se mi permette l’assessore Maurizio Lupi, è che nel suo avviso di garanzia c’è scritto che una delle ragioni per cui c’è del losco è che mandando lui i figli alla scuola Tommaso Moro – scuola iscritta alla Cdo di cui è consigliere d’amministrazione: la Tommaso Moro è uno dei 14mila enti iscritti alla Cdo – allora, per questo, lui ha un interesse privato con la Cdo. Essendo che manda i figli a una scuola di cui è consigliere d’amministrazione e che è iscritta alla Cdo, è chiaro che vuole favorire le altre 13.999 imprese iscritte alla Cdo. Non c’è più la libertà di associazione in Italia, perché chiunque è iscritto a qualunque cosa. Allora chi ricopre una carica pubblica deve essere una persona un po’ stupidina, un po’ ignorante o un po’ fuori da tutto, o forse deve dimettersi da tutto, forse pure dall’anagrafe. Anche su questo vorrei avere un dibattito pubblico col consigliere Fedreghini e con la dottoressa Ichino, perché qui non siamo nel penale: qui siamo nel culturale, se nel futuro del nostro paese davvero la democrazia voglia dire che appartenere a qualcosa (stiamo parlando di figli iscritti a scuola…) sia di per sé essere contro l’interesse pubblico o la possibilità di essere onesto rispetto a quello che si fa. Ora siccome non esiste neanche nessuna legge che impedisca a qualcuno di essere iscritto a un’associazione e svolgere un ruolo pubblico, qui ho paura che a furia di parlare di conflitto d’interesse, scendi, scendi arriveremo fino ad arrivare al marito e alla moglie, se al marito piacciono i pomodori è reato di interesse privato in atto pubblico che si faccia la pasta col pomodoro. Per questo ritengo che questa storia sia un inizio di processo politico fatto da una parte che si ispira a Suslov, a Ceausescu o a Pol Pot – Rifondazione comunista coi suoi modelli, ma ognuno può avere i suoi modelli, legalmente, però bisogna dire che è Pol Pot il modello – e dall’altra parte da un giudice che secondo me va al di là delle sue competenze interpretando la legge secondo informazioni false che credo non abbia preso lui ma gli siano state date, e secondo un’interpretazione forzata che – io non sono un legale – ma sicuramente va al di là delle sue competenze. Perché stiamo parlando di fatti e non di altro. Detto questo comincia il dibattito, che è fatto su due domande.
Il no profit come impresa, storica
Un dibattito sul no profit come impresa, perché anche prima di tutta questa storia il punto che noi poniamo è un punto cruciale: in tutta la storia italiana sono esistite le no profit senza che venissero chiamate no profit. Le università sono nate no profit, gli ospedali sono nati no profit, le scuole sono nate no profit, le banche almeno in certi casi sono nate no profit, molte istituzioni culturali sono nate no profit… no profit – secondo Sna e Sec, organismi internazionali di contabilità nazionale – è qualunque realtà dotata di patrimonio e reddito che non distribuisce gli utili. Nei secoli ci sono state queste realtà. La gente vi era così legata che le eredità, le donazioni le facevano a queste realtà. L’Ospedale maggiore, oggi pubblico, è uno dei più grandi proprietari terrieri della provincia di Milano perché la gente dava a queste realtà, perché erano un bene comune. Il Movimento cattolico operaio, per restare più vicini, ha dato vita a certe banche che hanno ancora adesso come punto centrale i Comitati di beneficenza perché erano delle banche del popolo, banche popolari, casse rurali, casse di risparmio. Le mutue, le assicurazioni, certe realtà che hanno dato vita a una certa forma di imprenditoria, cooperative e così via. L’Italia è il proliferare di queste realtà, che non chiamavamo no profit. Tanto è vero che come dice il professor Grossi, che fa da testo per questa storia del diritto, l’Italia è la patria di un pluralismo giuridico fatto di associazioni, fondazioni, leggi speciali, Ipab, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative. Perché si è ridotto questo semplicemente a volontariato? Questo è il primo problema di ordine conoscitivo. Perché il no profit non può essere anche un’impresa? Un’impresa diversa, senza fini di lucro, ma dotata di patrimonio e reddito, capace quindi di intervenire e fare quella che è stata la welfare society prima ancora che il welfare state in Italia. E Milano è piena di queste cose, si chiama Trivulzio, si chiama Cesano Boscone, si chiamano Martinitt, si chiama cardinal Colombo, si chiama Caritas, si chiama Don Gnocchi, si chiama San Raffaele… non solo cattolici, ma di fatti laici, socialisti, comunisti. Perché si è ridotto tutto a volontariato, perché c’è questa idea che il privato fa il male quando ha sempre fatto il bene comune e la gente ha riconosciuto il bene comune? Questa è la prima questione che noi poniamo al dibattito di oggi. Perché dobbiamo cancellare la storia per dire: lo stato è per il povero, la società no?
Dal welfare state alla welfare society
La welfare society in Italia è una struttura che fa parte dell’economia dall’Alto medioevo in poi e che ha contemperato il capitalismo delle grandi famiglie creando un sistema alternativo. Oserei anzi dire che il mondo delle piccole e medie imprese è una sorta di confine tra il capitalismo delle grandi famiglie di altri paesi e questo mondo di no profit. Perché creare lavoro al Sud o in certe aree con profitto – anche se distribuito – è una forma intermedia tra no profit e profit. È una forma d’investimento sociale. Questo è il primo punto che noi poniamo a questo dibattito che ha alla sua radice una definizione internazionale diversa da quella italiana, statisticamente accettata – l’Istat ha accettato questa definizione nel nuovo censimento, anche se c’è un dibattito sulle fonti l’Istat l’ha accettata – ma non dal livello giuridico. Hanno fatto la legge sulle Onlus che è una legge fiscale: ora chiunque si occupa di diritto sa che fare una legge fiscale prima che una legge civilistica è un aborto, perché non si può definire una cosa su qualcosa che non esiste prima. Infatti quando noi statistici dobbiamo ricostruire l’entità del no profit dobbiamo fare questi salti mortali con elenchi infiniti: la Croce rossa è una no profit o una profit? La cooperative è no profit? Impegnandoci in uno slalom giuridico. La Onlus è il tentativo di ridurre tutto il lavoro egregio della commissione Zamagni e di moltissimi studiosi a settori marginali della società, come settori e come tipo d’influenza. Tentativo di ridurne gli aspetti di incidenza, tanto è vero che è finita la legislatura e non sono ancora riusciti a fare l’Authority del no profit. Pensate quanto gliene poteva interessare al signor Visco di queste cose. Il problema è quello di dare valore civile al terzo settore, per questo ci voleva quello che comunque io ritengo positivo, l’introduzione della sussidiarietà nella Costituzione: al di là dei poli politici, dico che io come privato cittadino sono contento – dopo aver raccolto 1 milione e 300mila firme con gli amici di destra e di sinistra – che siamo riusciti a far sì che ameno in forma ridotta passasse il principio di sussidiarietà. Perché è il presupposto per dire che il pubblico può non essere statale, cioè che può essere pubblico anche ciò che non viene gestito direttamente dallo Stato. Come ci insegna la nostra storia. Questo principio che non è ancora passato in certi cervelli è passato nella Costituzione. Allora vedano loro se vogliono mettersi contro la Costituzione o meno.
Italia: maglia nera nella legislazione sul no profit
Il secondo passo è una legge sul no profit, un filo rosso che dica cosa è no profit, secondo una definizione internazionale, chiara, precisa, statisticamente rilevabile, almeno riscontrabile nell’incrocio dei registri delle Imprese, Rea, Inps, Inail in modo chiaro, se si volesse con agganci anche all’anagrafe tributaria e alle liste di settore. Ma si può andare a sapere cos’è no profit. Si può andare a vedere, scientificamente non politicamente. Il volontariato è una parte importantissima, ma è una parte. In no profit non è solo volontariato. Voglio sapere perché un uomo che abbia patrimonio e reddito e non distribuisca gli utili sia un uomo cattivo di per sé. È il manicheismo che viene fuori, non è una questione scientifica o giuridica. C’è in giro un’idea manichea della realtà, non l’uomo che ha il peccato originale – secondo la nostra tradizione cattolica – e può sbagliare e può cambiare. No, secondo certa gente ci sono i buoni e i cattivi da separare. Più grandi di Gesù loro hanno già trovato la grande formula chimica che gli darà il Nobel per separare la zizzania dal grano. Passaggio successivo: si può distinguere tra public no profit e mutual no profit. La mutual no profit è una no profit che si dirige ai soci, la public no profit è una struttura che fa il bene comune. Alcuni dicono: anche le mutual no profit fanno il bene comune e potremmo andare avanti a discutere e potrebbero avere ragione. Cominciamo però col dire che il bene comune lo fanno le public no profit. Ma ci sono già le public no profit! Addirittura tra gli ospedali ci sono gli ospedali classificati, equiparati agli ospedali pubblici. Ditemi che un Cottolengo a Torino è qualcosa che non fa una pubblica utilità! Ditemi che gli enti che curano la tossicodipendenza non fanno la pubblica utilità! Ditemi che negli Usa un’università gestita secondo criteri di no profit non fa la pubblica utilità utilizzando le strutture dieci volte di più di quanto non facciamo qui in Italia! Ditemi che il Cabrini Hospital di New York che utilizza i soldi che prende dai ricchi per pagare i poveri che non pagherebbe nessuno non fanno una pubblica utilità! Allora c’è un sottoinsieme: public utility. Questo sottoinsieme è quello che innanzitutto deve esistere e può avere un trattamento diverso nel rapporto Stato-cittadino. Diverso perché? Come si sono sempre finanziate queste strutture?
Un po’ di storia (d’Italia)
Prima del progressivo aumento della tassa sul macinato che dal 1861 sembra essere una delle poche politiche fiscali dei governi italiani (qualunque sia stato il loro colore, dalla tassa sul macinato, alla tassa sulla benzina, la logica è sempre quella…), queste realtà si sono sempre mantenute con eredità, donazioni, esenzioni fiscali, deduzioni fiscali (adesso si chiamano buoni) perché è stato riconosciuto loro che facevano qualcosa che serviva allo Stato, facendo le veci dello Stato, un vero e proprio “servizio pubblico” anche se non gestito dallo Stato. Questo tipo di logica si è poi atrofizzata per due ragioni: primo, perché l’abbandondo di questo modello di welfare society ha permesso di drenare tasse dappertutto; secondo perché si è asservita questa ricchezza di opere della società al mondo degli appalti, al mondo dei partiti, al mondo dei finanziamenti a pioggia, in modo che il finanziamento di queste realtà fosse il più possibile ancora governato da un “pubblico”. Non solo il “pubblico” si è occupato di settori di cui prima non si occupava, ma ha asservito questi settori, impedito che ci fossero donazioni in condizioni di favore. Pensate cosa significa già in Italia la differenza per il restauro dei beni monumentali, dove è ammessa invece la deduzione fiscale. Pensate che vantaggio per una Fiat ristrutturare Palazzo Grassi a Venezia, oppure comperare dei quadri dati alla collettività. Pensate se questi interventi fossero applicati a vantaggio della collettività in ogni settore!
La vera ( e presunta) lotta a tangentopoli
Se io verifico che una certa impresa è di pubblica utilità – oltretutto oggi ci sono anche criteri di qualità: negli Usa gli ospedali sono classificati secondo criteri di qualità, l’apposita commissione di controllo utilizza migliaia di indicatori di qualità e di procedure per valutare la qualità di un ospedale, quindi non è l’accreditamento dell’amico dell’onorevole – perché non riconoscerle un diverso trattamento fiscale, in modo da consentirle di reinvestire risorse sul mercato, perché non hanno tasse e perché a differenza delle imprese a scopo di lucro non ricevono remunerazione del capitale? E perché il cittadino non deve poter scegliere tra agenti diversi – statali, privati, no profit – e decidere di dare quello che serve per la pubblica utilità: ad esempio, all’agenzia statale in tasse e a quella no profit in “buoni” che spende in strutture no profit che hanno il duplice risultato di essere utili e avere una finalità sociale? Perché non posso scegliere? Cos’è la lotta a tangentopoli se non comincia da qui, sottraendo al potere nazionale, regionale, locale somme di reddito e restituendole ai cittadini? Poi ricordatevi che negli Usa ci sono organismi di controllo che se tu rubi ti mandano in galera, chiudono la cella e buttano via la chiave. Perché negli Usa ragionano diversamente: io mi fido, se però tu sgarri hai chiuso. Non come in Italia, dove si dice: io non mi fido, che tu sgarri o no. Questi tre princìpi che si potrebbero articolare sono i tre punti di un approccio, il nostro, che lascia libertà per tutti. La questione della cascina san Bernardo allora ha dietro questo problema, questa paura. Mentre il problema dei cittadini e ciò di cui hanno paura sono le Bassanini che moltiplicano le competenze agli enti locali: così se la Regione aveva 30 funzionari che si occupavano della formazione, oggi 11 province ne hanno 330. E’ questo il decentramento? Mi spiace ma meglio un imperatore ad Aquisgrana che 330 feudatari che mi controllano.
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