
Ex mozziconi alla ribalta
Bolzano
La sicurezza dell’hotel di New York se lo ricorda ancora il groviglio di ragazzetti che “discutevano” a modo loro tanto da forare la barriera del suono tra primo e settimo piano. L’equipaggio del cargo postale di Capo Nord anche: tutti lì a vomitare fuori bordo finché uno di loro, alto quanto un puffo, aveva gridato: «Eccole, le cose, sì, quelle lì, le renne!». «E che t’aspettavi al Polo Nord, i chihuahua?», lo aveva rimbeccato un altro con qualche mese di esperienza in più sulle spalle. Non sapeva l’equipaggio che quegli ometti, di tutte le età comprese tra i 3 e i 17 anni e agghindati alla bell’e meglio con giacche e scarponcini di tutte le misure a spasso per l’Artico, non erano che cicche, cicche di sigaretta buttate a terra e destinate a fare la fine dei (pochissimi) mozziconi abbandonati per le strade del centro di Bolzano: c’è sempre qualcuno pronto a calciarli in un tombino pur di poter ignorare la loro esistenza.
Che la cicca non fosse l’unica nota stonata, in una città che conta appena centomila abitanti e dove anche i finferli se la tirano, lo aveva capito bene Milena Stefanini, quando nel 2000 s’imbatté in un gruppo di ragazzini albanesi “domiciliati” sotto un ponte. Minori stranieri non accompagnati, venivano chiamati, e sembrava fosse tutto lì il problema visto che in quanto all’altra caratteristica, “albanesi”, Bolzano si fregia di un livello d’integrazione che non è secondo a nessuna città d’Italia. La leggenda diffusa nel resto del paese, infatti, vuole che tra le valli dell’Adige protezionismo e assistenzialismo viaggino con lo stesso autista. Che, per esempio, le scuole tedesche facciano l’intervallo in orari diversi da quelle italiane per evitare che le due etnie indigene si mescolino, mentre contemporaneamente le porte della città si spalancano ad accogliere l’immigrato, che “fa numero” (ed elettorato). Peccato che, tra protezionismo e assistenzialismo, a fare le spese del perfetto modello burocratico altoatesino siano spesso quei privati che a questo tipo di integrazione avrebbero qualcosa da aggiungere.
Qualcosa di simile doveva impensierire Milena, la certezza che la risposta al bisogno dei ragazzini non la si potesse imbrigliare proprio in alcun modello. Le fu chiaro quando un giudice dei minori le chiese di accogliere nel centro dove svolgeva attività di doposcuola un ragazzino che la famiglia affidataria stava per rispedire al mittente. Ne fu certa quando dopo ripetuti tentativi di costruire un luogo dove scommettere sull’accoglienza, la provvidenziale intuizione di alcuni, pochi, funzionari dell’azienda dei servizi sociali affidò a Milena e alle “sue” donne, le amiche Claudia e Laura, qualcosa di più difficile da gestire dei minori stranieri.
E Mohamed diventò cuoco
È il 2002 e nei locali adiacenti la parrocchia del quartiere periferico di Oristarco, deputati a sede del nuovo centro di accoglienza Punto Liberatutti, fanno capolino: il ragazzino affidatario borderline su cui nessuno avrebbe scommesso un cent, una bambina con disturbi comportamentali tali da guadagnarsi più di un francobollo per la comunità residenziale e due fratellastri marocchini e musulmani osservanti con una mamma attenta alla carne di maiale ma non ai disturbi che manifestano i suoi figli (uno con problemi di linguaggio, uno con disturbi del comportamento e una cerebrolesa). Il maggiore (che chiameremo Mohamed) alza le mani, nessuna scuola vuole saperne di lui, perfino in questura alzano gli occhi al cielo quando lo si nomina. Il Punto lo accoglie, ma in capo a pochi mesi la mamma litiga con l’assistente sociale e lo ritira. «Con le famiglie non è mai semplice», racconta Laura, oggi depositaria dell’intuizione di Milena, scomparsa prematuramente nel 2005. «Se un ragazzo fa un passo avanti ma la famiglia non lo segue in quello stesso passo, il progetto è fallimentare in partenza. Noi scommettiamo sull’adesione libera, cercando di far capire ai genitori che vogliamo farci compagni della loro realtà, pur fatta di delinquenza, tossicodipendenza, di un rapporto con la vita molto segnato».
Dopo sei mesi Mohamed gioca la sua carta per tornare al Punto: distrugge la scuola. Uscirà dal Punto pochi anni dopo per riprendere in mano la sua vita in un rinomato istituto alberghiero, dove far fruttare la passione per i fornelli imparata nelle cucine del Punto con Arianna, cuoca volontaria. Nel 2003 i ragazzi arrivano a 26. «Nasce anche il progetto dell’età prescolare per venire incontro a due fratelli ghanesi, una di soli 3 anni, con una storia di tre affidi alle spalle tutti andati male. Non potevamo separarli ancora». Alle attività estive organizzate dalla parrocchia Oristarco è tutto un sussurrare “ma chi lo riconosce più Tommi, così attento, paziente”. Laura sorride: sa che contro la schizofrenia che affligge Tommi c’è poco e al contempo tantissimo da fare: «La nostra scommessa educativa pedagogica integra strumenti riabilitativi e psicopedagogici che giocano in prevenzione, ma non si esaurisce nell’intento della guarigione. Non mettiamo la terapia in primo piano, ma al servizio di uno scopo che la supera».
Dalla Grande Mela a Oslo
Per capire cosa intenda Laura bisogna immaginarsi la faccia di quel console americano che, aprendo le porte del suo ufficio a Firenze, si trovò innanzi 20 ragazzini ipnotizzati dalla sua cravatta tutta melanzane e peperoni chiedendogli un visto per l’America. Facciamo un passo indietro, all’inverno del 2005 quando Laura chiede all’annoiatissimo Mohamed se esiste qualcosa che lo interessi tanto da fargli “spendere” qualcosa di lui. «Sì, per un viaggio a New York farei di tutto». Detto e fatto, il Punto si riversa nelle strade di Bolzano, cercando fondi e preventivi per il viaggio. Con un pulmann raggiungono il console a Firenze e, recuperati i visti per i ghanesi, si preparano alla partenza. Senza sospettare che dietro gli starnuti di Iris si preparava a scoppiare nella Grande Mela un’influenza coi controfiocchi: «Immaginatevi di interloquire in inglese con medici che fanno una lastra a una bimba con febbre a 43 e al contempo di giurare alla sicurezza del-
l’hotel via telefono che i ragazzi è normale che si menino, sono solo un po’ nut, pazzerelli». E poi, a spasso per le vie di New York, col naso all’insù verso i grattacieli che ti fanno dimenticare l’hot dog, e il pensiero che Bolzano sia piccolissima. Il Mercoledì delle Ceneri il ghanese si sarebbe fatto strangolare piuttosto che uscire con la zazzera imbiancata, ma all’informazione di un coetaneo («Aò, ma sai cos’è la cenere? È il segno che sei amico di Gesù»), schizza a farsi “incenerire” e non si vuole più lavare i capelli.
Anno 2006, si replica: viaggio a Madrid e poi a Rodi a festeggiare l’avventura che attende lo chef Mohamed, dove la polizia è meno agitata di quella americana e Laura è l’unica ad accorgersi che alcuni permessi di soggiorno sono scaduti. Anno 2007: ore di pulmann per coprire spostamenti dai 200 ai 1.000 chilometri verso i fiordi norvegesi, i “grandi” che aiutano con le valigie bambini di sei anni così esaltati da scordarsi di mandarsi tutti a quel paese almeno una volta al giorno. Nemmeno quando corrono alla fine del molo e invece di iceberg, orsi bianchi e pinguini si trovano a osservare qualcosa di simile a un grande torrente Talvera, i pescatori che scuotono il capo, «quest’anno niente ghiaccio». «Perché questi viaggi?», si è trovata a spiegare più volte Laura. «Perché viaggiando i ragazzi, che non hanno mai conosciuto lo straordinario, possono sperimentare cosa significhi che l’eccezionalità si gioca nel quotidiano, anche se il quotidiano è fatto di mille contraddizioni. Questa è integrazione: la loro fiducia nel fatto che noi non siamo lì per fregarli. La solidarietà non è che la passione per questo compito. E l’accoglienza è quello che avete visto qui, sentirsi dire “voglio andare a New York”, e invece di “sei scemo?” rispondere: “Caspita. Anche io”».
Nessuna gabbia è così grande
Oggi dietro ai 26 bambini del Punto lavorano 19 persone, che si occupano anche di un altro servizio dell’associazione: l’educativa domiciliare. Ma i locali dietro la parrocchia si son fatti stretti e la domanda cresce. Si fa un gran parlare anche di una convenzione che la Provincia vorrebbe stipulare col Punto, inserendolo nella “rete socio-sanitaria integrata”. Laura è irremovibile nel chiedere, però, «che non si snaturi l’opera. Vogliamo la libertà di difendere un’esperienza così grande che non può essere ingabbiata nelle maglie di un unico sistema, come Milena aveva intuito. Sta bene una regola generale, ma solo se permette a una realtà di diventare creativa al punto da portare il suo volto sgarrupato in giro per il mondo».
Il 7 novembre il Punto Liberatutti porta in scena per la seconda volta, dopo tre anni di lavoro educativo, uno spettacolo che racconta la storia di Edimar, un ex “menino de rua” convertito al cristianesimo e morto per difendere la sua nuova vita. E questa volta faranno tappa a Milano, teatro “Sala Fontana”, venti ragazzi che non erano mai usciti da Bolzano e che sul grande aereo diretto in America hanno scoperto che il sapore della vita supera di gran lunga quello del finferlo che se la tira a Bolzano.
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