La preghiera del mattino

Fassino e il suo atlantismo da ex Pci, buono solo per distribuire scomuniche

Piero Fassino
Piero Fassino, deputato del Pd, presidente della commissione Affari esteri della Camera (foto Ansa)

Su Formiche Piero Fassino dice: «I partiti italiani devono essere coerenti con il posizionamento internazionale dell’Italia. La politica estera torna a essere determinante nella definizione degli equilibri di governo interni. L’europeismo e l’atlantismo sono i due binari su cui qualsiasi partito italiano, se vuole essere credibile, deve indirizzare la propria politica».

Il nucleo di “verità politica” in questa affermazione di Fassino è condivisibile, ma è avvolto nella solita grigia banalità che caratterizza l’ex dirigente del Pci, condita di considerazioni approssimative su autocrazie, populismo e decisionismo. Gli ex Pci, non per caso guidati da ex Dc meglio attrezzati a una tattica tutta verticistica, non hanno mai reali posizioni politiche, si limitano a vigilare i confini dettati dalla maggioranza dell’establishment e da ampi sistemi di influenza straniera. Non sono capaci di offrire ad altre forze politiche, pur sostanzialmente europeiste e atlantiste, una cornice democratica entro la quale misurare con il voto le differenze. Il loro unico obiettivo è detenere una funzione di scomunica e partecipare a un potere delegato dall’alto.

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Così Huffington Post Italia riporta un’affermazione di Enrico Letta: «Attenzione, perché non vorrei che con i distinguo si finisse come con il colpo di pistola di Sarajevo, che diede il via alla Prima Guerra mondiale. Nessuno vuole che i distinguo divengano il colpo di pistola di Sarajevo».

Come fa una persona colta e intelligente come Lettino (così chiamato per distinguerlo dall’autorevole zio) a paragonare anche paradossalmente democratiche elezioni anticipate alla Prima Guerra mondiale? Ciò succede perché la politica italiana ha, soprattutto a sinistra, la sua base nell’“alto” e nel “fuori”, invece che su salde radici nazionali. E, in questo contesto, un prefetto francese mandato a dirigere il Pd, può dire la qualunque.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Ruben Razzante scrive: «E allora che senso ha parlare di nuovo centro e di polo centrista? Nessuno. Anche perché i soggetti che ne parlano sono i meno titolati a parlarne, provengono tutti da altri partiti e somigliano a generali senza truppe, privi di consenso popolare e animati solo da una invincibile brama di potere e da un avviluppante istinto di sopravvivenza e autoconservazione, oltre che da una spiccata attitudine al litigio. Un rassemblement che andasse da Clemente Mastella a Giovanni Toti, da Luigi Di Maio a Matteo Renzi, da Carlo Calenda a Bruno Tabacci che coerenza potrebbe avere? E, soprattutto, quale forza attrattiva potrebbe emanare nei confronti di un elettorato stanco, deluso, disorientato, preoccupato, pronto a scendere in piazza se la qualità della vita dovesse ulteriormente peggiorare? I voltafaccia dei quali tutti quei soggetti si sono macchiati nel corso della loro breve o lunga carriera politica non rappresentano il loro miglior biglietto da visita per non considerarli affidabili e in grado di salvare il paese dalla tempesta che sta per arrivare? Può Mario Draghi pensare di rimanere in sella anche nella prossima legislatura, ove fosse interessato a farlo, affidandosi a questo ceto politico?».

Razzante al fondo si chiede che cosa potrà ancora inventarsi quell’ampia parte dell’establishment (ben interpretato dal suo cagnolino di servizio cioè il “giornalista collettivo”) che non vuole in Italia la contendibilità del potere politico e in tal senso si impegna a impedire in ogni modo il dispiegarsi della volontà popolare.

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Su Dagospia si scrive: «A 4 mesi e mezzo dall’inizio della guerra in Ucraina, ormai è evidente che l’Europa sia la vittima inconsapevole del conflitto a distanza tra Stati Uniti e Russia. La tenaglia economica, energetica, inflazionistica, di approvvigionamenti, in cui è stretto ormai il mondo, sta spingendo tutte le cancellerie a invocare una rapida conclusione del conflitto».

I cosiddetti Dagoreport, come quello da cui estraiamo queste considerazioni, non si distinguono per la finezza dell’analisi, ma non di rado una certa rozzezza serve ad andare al cuore delle questioni più rilevanti, come quella dell’esigenza di trovare una conclusione al conflitto russo-ucraino, facendo pagare nella misura del possibile l’aggressore moscovita ma nel contempo ricostruendo un dialogo tra le potenze globali.

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