Fondazioni private, pubbliche virtù

Di Giorgio Vittadini
10 Luglio 2003
E' un modo per superare l’antinomia pretestuosa tra privato e Stato, riconoscendo l’esistenza di forme intermedie

Nel momento in cui si attende la sentenza della Corte Costituzionale sulle Fondazioni Bancarie, non è superfluo ricordare gli aspetti metodologici per cui questa battaglia ha a che fare con lo sviluppo e la reale democrazia nel nostro Paese.
Il primo punto riguarda l’autonomia. Un anno fa il Consiglio di Stato, sulla proposta di regolamento della riforma Tremonti, sanciva che il patrimonio accumulato nel corso dei decenni dalle banche pubbliche appartiene moralmente, anche se non giuridicamente, alle collettività dei depositanti risparmiatori, e dei beneficiari del credito, prima ancora e più che agli enti esponenziali delle collettività locali. È questo uno dei primi casi in cui la sussidiarietà orizzontale, dopo 50 anni, viene sancita con chiarezza nel nostro paese e sottolinea che la rappresentanza democratica non è garantita solo dai partiti o dalle elezioni, ma è molto più complessa, prevedendo altre forme quali, ad esempio, le Camere di Commercio, le Università, le Fondazioni bancarie. Se non si riconosce questo, tutto diventa parte dello scontro partitico, e così si rischia la paralisi. Ci sono realtà non riducibili a uno schieramento, che appartengono alla collettività. La battaglia per l’autonomia segna anche la possibilità di costruire insieme, pur nella diversità, avendo a cuore un bene comune che è anche nel pluralismo istituzionale. Secondo passaggio. Quando si parla di etica dell’economia, ci si sofferma innanzitutto sulla distribuzione della ricchezza esistente, senza considerare mai tutto ciò che riguarda la sua creazione. Certe ideologie massimaliste, liberiste o anche di stampo marxista, non pongono il problema su come i mezzi di produzione umani e tecnologici possano generare ricchezza. Tutto ciò è documentato anche nel sistema bancario e nelle Fondazioni, che lungo i secoli non hanno solo amministrato un patrimonio, ma, proprio in virtù del loro pluralismo, hanno generato ricchezza. Il terzo tema riguarda l’idea per cui è giusto considerare pubblica qualunque realtà che serve un’utilità sociale (e quindi, non necessariamente gestita dallo Stato), così come già riconosciuto a livello mondiale. È, del resto, la stessa storia del nostro Paese, se pensiamo a scuole, ospedali, opere di assistenza, ed anche banche. Questa idea di pubblica utilità è anche un modo con cui si supera l’antinomia pretestuosa tra privato e Stato, riconoscendo l’esistenza di forme intermedie. Ora, il caso delle Fondazioni è emblematico di questo, perché pone il tema della pubblica utilità non solo nell’assistenza, nella sanità, ma anche nella creazione di ricchezza, che oggi è vista solo come un fatto puramente speculativo. Introducendo il principio per cui le Fondazioni bancarie sono realtà private, ma di utilità pubblica, generiamo una chiave di volta nel dibattito del nostro Paese, che probabilmente ci permetterà, finalmente, di allinearci agli altri paesi sviluppati, onorando una tradizione più ricca sul piano giuridico, economico, sociale, a cui la sterile contrapposizione tra liberisti e statalisti non può rendere giustizia. Quelli delineati sono tre principi che vanno ben al di là della battaglia sulle fondazioni per diventare criteri metodologici generali.

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