
Noi e la funivia. Perché si muore anche «in paradiso»?

Eppure tutti i giorni prendiamo una funivia. Tutti i giorni, da quando siamo strisciati fuori dal grembo di nostra madre, rischiamo inconsapevolmente lo schianto. Cos’è a muoverci, se non la fiducia nella vita?
«Stiamo salendo in funivia, qui è un paradiso», ha scritto a sua sorella l’inconsapevole Roberta, abbagliata dalla bellezza che la risucchiava in vetta pochi minuti prima di precipitare dalla funivia del Mottarone. E se non ci è chiaro quasi nulla di cosa diavolo sia accaduto lassù, sappiamo benissimo perché, in una domenica di maggio, Roberta e altri ragazzi, fidanzati, genitori, bambini, nonni, avevano preso quella processione quieta di cabine rosse che saliva, nel cielo zaffiro. Sopra i boschi di montagna profumati di resina, verso il sole che splendido trionfava sulla cima del monte, e a specchio nel lago.
Morire in una giornata di sole
Ma non si può morire così, «in una giornata di sole», è stato il commento più scritto da noialtri a terra, ammutoliti da uno schianto eppure capaci di un ingorgo di parole. Noi intenti a leggere, scrivere e commentare il sibilo, lo strappo, il tonfo sul pilone. Il volo, il boato a terra, il cratere. Noi ad inseguire insieme ai soccorritori un flebile respiro proveniente dall’angusta fessura del cabinato fracassato contro un pino. E all’interno non c’erano più Roberta, i fidanzati, i bambini, ma «un inferno», «un campo da battaglia», lamiere, corpi ammassati, racconta un volontario mentre gli si spegneva tra le braccia un giovane e il suo alito di vita, sotto di lui un piccolo immobile con gli occhi chiusi.
L’abbraccio del padre
Domenica mattina era il paradiso, e poi d’improvviso sono stati quattordici i morti sul pendio del Mottarone, sparpagliati nel bosco o imprigionati nell’abitacolo, un bambino dopo aver lottato da solo in una stanza d’ospedale. Lo schianto ha sputato alla vita solo il piccolo Eitan, che ha perso i genitori, il fratellino Tom di soli 2 anni e i bisnonni materni appena arrivati da Israele. Leggiamo abbia ritirato le gambine spezzate davanti ai medici sconosciuti, capace solo di gridare: «Lasciatemi stare, ho paura». Dicono, al Regina Margherita di Torino dove è stato ricoverato, che il bimbo è stato salvato dall’abbraccio del padre. Un padre forte e robusto che lo ha stretto a sé, mentre la cabina indietreggiava e poi precipitava e rimbalzava tra le rocce, facendogli scudo.
E mentre Eitan viene sedato, ora che quel sole rapinoso ha lasciato il posto a una pioggia incessante che «frena le indagini», ovunque è un brulichio di rabbiosi “perché”. Perché sono morti, chi è stato, chi ha ucciso quelle persone amatissime. Persone di cui in poche ore siamo venuti a sapere tutto, dove lavoravano, studiavano, viaggiavano. Che avevano appena cambiato casa o riabbracciato i nipotini italiani, che festeggiavano la laurea, la guarigione dal Covid.
Gli insensati “perché?” dei giornali
Ed ecco precipitarci nella “videoricostruzione”, l’indagine per disastro colposo, «più aziende coinvolte». Il procuratore che parla di freno di emergenza che non ha funzionato, il profilo del gestore dell’impianto, le accuse alla ditta di manutenzione, i precedenti della funivia del Mottarone («nel 2001, 40 persone salvate con l’elicottero») e quelli delle funivie in Italia («una storia di disastri» scrive il Corriere). Ecco il Ponte Morandi «che non ci ha insegnato niente», la caccia al responsabile di questa e tutte le tragedie che verranno. «La strage sul Mottarone produce le solite lacrime di coccodrillo sulla sicurezza dei trasporti. Ma le nuove norme sugli appalti moltiplicheranno simili tragedie», scrivono gli sciacalli del Fatto Quotidiano. «La strage delle riaperture», titolano Messaggero e Mattino.
Che pallida e vigliacca maniera di digerire una domanda di senso e una tragedia ritenuta “inammissibile”, dopo un anno e mezzo trascorso a credere nell’esistenza del rischio zero, chiusi in casa, nel rispetto delle regole. Un anno e mezzo passato a concepire la morte come colpa e fallimento di un sistema incapace di proteggere la vita. Tanto che, dicono gli “scampati” alla tragedia del Mottarone in coda per i biglietti dietro alle vittime, a salvarli sarebbero state le norme anti-Covid, grazie alle quali la funivia viaggiava a regime ridotto.
La normalità «cercata e perduta»
Eppure è proprio qui, nel paradosso di una normalità «tanto cercata e subito perduta» che ci prende di schianto e in contropiede che ci siamo scoperti incapaci di chiederci davvero “perché?”.
Come ha scritto il poeta Davide Rondoni:
«Non basta vivere “normalmente” occorre chiedersi il perché si vive, si muore, si esiste, si ama. Ogni volta accade una cosa del genere possiamo voltarci da un’altra parte oppure chiederci ancora più profondamente: perché? E non solo “perché” quel dannato cavo è ceduto, per quale caso o incuria. Ma anche e soprattutto “perché” la vita, la morte, perché questo paradosso di volare e anche precipitare, perché questo desiderio di gioia e questo limite terribile che ci tocca sperimentare».
L’agguato sul Mottarone
Quello sul Mottarone è stato un agguato in piena regola. Un agguato alla nostra idea di vita amputata del suo mistero. Raccontano i sopravvissuti dello tsunami del 2004 che l’oceano abbagliante aveva attirato a sé frotte di bambini e curiosi a riva prima della grande onda: aveva risucchiato il mare, per centinaia di metri, scoprendo conchiglie bellissime, pesci argentati. In molti erano corsi verso i tesori rivelati per poi finire ferocemente inghiottiti da una montagna d’acqua assassina. Una trappola in piena regola. È giusta la vita? Ce lo siamo chiesti da allora ad ogni rottame di aereo precipitato a terra, ad ogni casa frantumata dal terremoto, ogni volta che l’abisso si è spalancato sotto le nostre fragili scocche abbandonate al vivere.
Ce lo siamo chiesti e abbiamo girato la domanda al magistrato, sperando che una spietata inchiesta risolvesse ogni volta il problema: chiarire la regola tradita, la causa-effetto. E soprattutto, scongiurare l’inammissibile eventualità che la vita sia mistero. Un mistero che incombe attirandoci in vetta da quando strisciamo con fiducia fuori dal grembo di nostra madre e inconsapevolmente rischiamo la pelle per dare al vivere un senso, muovendoci là dove luccicano le conchiglie o come Roberta intravediamo il paradiso.
Gli esperti chiariranno perché si spezzano cavi, crollano ponti. A noi inesperti non dovrebbe che restare questo: ficcare gli occhi dentro lo smarrimento di creature finite e prive di assicurazione sulla vita e urlare “perché”, come scrive Rondoni, come si chiederà Eitan. Perché si può morire in una giornata di sole ma soprattutto perché prendiamo una funivia ogni giorno, ogni secondo, due sole braccia a scudo di chi amiamo nello schianto.
Foto Ansa
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